In quale stato ( siamo)

In quale stato ( siamo)

 

Berlusconi elogia Lukashenko – una sorta di pezzo da museo, si potrebbe dire,  se non fosse vivo, verde e ancora in grado di combinare guai –  dopo aver incontrato nelle settimane precedenti l’amico Putin e  aver visitato il Turkmenistan e l’Arabia Saudita insieme a Tarak Ben Ammar. Di queste visite il cui denominatore comune sembra essere la legittimazione dei peggiori regimi dittatoriali, non è del tutto chiara la ragione, a meno di voler credere alle storie degli archivi del KGB o dei soggiorni in Italia dei ragazzini di Chernobyl. Ma, in assenza del premier, il dibattito nazionale è solitamente  concentrato altrove, vuoi sull’abolizione della pausa pranzo, vuoi  sull’ennesima trovata di Brunetta, vuoi sui motivi reconditi – mai nel merito – delle esternazioni di Fini.

Certo per uno che ha fatto dell’anticomunismo il tema forte delle sue campagne, è un bel salto l’apprezzamento del governo di Minsk. Come  lo sono, una volta rientrato a casa, le bacchettate alle riunioni di partito. Parole grosse, in qualche caso obsolete:  linea politica per esempio, si parla di chi ne è dentro e chi ne è fuori, nemmeno troppo velatamente, minacciando di espulsione questi ultimi. Con buona pace delle diverse anime e del partito plurale ed inclusivo. Appunto il partito delle libertà.

Ma essendo gli schemi saltati dal dì, nessuno fa caso alle mutazioni in atto. L’organizzazione di un partito, c’insegnavano, è lo specchio del tipo di governo che quello stesso partito vorrebbe realizzare. Non sono tra quelli che strillano con facilità alla dittatura o al regime ma i venticelli autoritari – anche l’ammirazione sperticata del Capo,  il consenso cieco, al limite della sottomissione, ne sono parte  –  che spirano intorno a qualsiasi,  iniziativa o dichiarazione  del partito al governo, risultano sempre più in armonia col progetto che, a ben vedere, non è semplicemente presidenzialista.

Prova ne è il nuovo –  che nuovo non è –  corso di Gianfranco Fini, uomo di destra seppur di una specie a cui non siamo abituati, il quale ribadisce da tempo che una repubblica presidenziale deve avvalersi di robusti contrappesi istituzionali di bilanciamento al potere del leader. Sottintendendo che per  un simile programma, qui da noi, bisognerebbe avere, oltre che il consenso, una volontà di rivoltare gli assetti, propedeutica ad una stagione di robuste riforme. Poi parla anche di rispetto per le istituzioni, ma questa è un’altra faccenda. Nell’un caso e nell’altro, non mi pare sia questa l’aria.

Essendo l ‘Ordinamento una specie di piramide in cui le norme al vertice producono i parametri per le sottostanti, il metodo invalso di piazzare rattoppi legislativi – in massima parte per contrastare le vicende giudiziarie del premier – può solo deteriorare situazioni già compromesse quando non incappare come pure è già successo nel rischio anticostituzionale.

La fretta di soccorrere problemi gravi ed urgentissimi – e qualcuno lo è davvero – non c’entra. Presi uno per uno questi provvedimenti, hanno il solo scopo di distruggere il nostro sistema di garanzie ed un unico leit motiv : fare carta straccia della separazione dei poteri e del principio di uguaglianza . Dalla separazione delle carriere, al processo breve passando per un tentativo strafalcione di ripristinare l’Immunità senza osservare i passaggi previsti. Ha ragione Fini a non riconoscere nella politica del governo i tratti della sbandierata, all’epoca della fondazione del PDL, cultura liberale.

Così, mentre restiamo in attesa di conoscere quale sarà la percentuale di processi che andrebbero al macero, se venisse approvata la nuova legge – dall’ uno del Guardasigilli al quaranta per cento dell’ANM e altri, non è una forbice, è la spaccata in aria di Margot Fontayn -, la settimana giudiziaria, giammai politica, del premier scorre tra la condanna al versamento di una fidejussione a garanzia dell’eventuale pagamento CIR, alla ripresa del processo Mills, all’attesa delle dichiarazioni in aula di un pentito di mafia.

Anche a voler considerare tutto ciò una persecuzione, dunque ammettendo come sacrosanto il diritto di difendersi dal processo, tutto gli sarebbe consentito fuori che di farsi le leggi ad hoc. Ma lui, a sorpresa,  sceglie d’intraprendere un ulteriore viaggio – mistero.

Panama, quella del canale e dei cappelli intrecciati con le foglie di  palma nana, è la suggestiva destinazione. Dato il calendario d’impegni che si lascia dietro, vedo remota l’ipotesi che si possa sentirne la mancanza. Ma siccome è l’ennesima boutade,  che buon pro gli faccia egualmente, ovunque si trovi.

 

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