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Distacchi

Distacchi

 

I distacchi, avvertono i conoscitori dell’animo umano, sono fondamentali opportunità di crescita. Quando me lo dicono, domando se per caso non vi siano modi meno dolorosi di quelli del lutto, evento realmente definitivo e proprio per questo inspiegabile. Ovvero – ma questo lo tengo per me, temendo di passare per presuntuosa arrogante – se io non sia sufficientemente cresciuta , alla mia non tenera età, da non aver più bisogno di questi strappi per diventare grande.

L’elaborazione del lutto è entrata a far parte del lessico comune, me la auspicano insospettabili verduraie imponendo al proprio linguaggio abituale, sobbalzi da triplo salto mortale con avvitamento. Pare facile. E invece non lo è affatto. Parola di chi questi distacchi sopporta da quando era ragazzina e ora teme un pericoloso effetto domino, essendo il mio povero papà, punto di riferimento di molte altre persone che l’età ha reso estremamente fragili.

Per conto mio, ho ripreso il cammino da subito, seguendo un vecchio istinto ed una di lui,  precisa indicazione. Solo questo blog ha subito una battuta d’arresto, scrivere in certi momenti significa tirare fuori il peggio, tra rabbia, lamenti  e retorica. Questione di pudore – mi piace pensare –  o forse di scarso coraggio, di indisponibilità a mostrarsi. Comunque a lui non sarebbe piaciuto nemmeno questo tipo di cedimento, l’altissimo senso della sua lezione preferita: occhi asciutti, schiena dritta e testa alta, ne avrebbe invariabilmente sofferto.

Così ho deciso che non me ne può fregar di meno dell’elaborazione del lutto. Mi tengo stretto il dispiacere e vado avanti. Che altro non so e non ho voglia di fare.

Nell’illustrazione una sequenza di Baaria. Padre e figlio stanno per assistere al primo film della vita di Giuseppe Tornatore.

You sold your soul to the devil when you put on your first pair of Jimmy Choo’s, I saw it.

You sold your soul to the devil when you put on your first pair of Jimmy Choo’s, I saw it.

Tu hai venduto l’anima al diavolo quando hai indossato il tuo primo paio di Jimmy Choo. Ti ho vista. Dice Emily ad Andrea in The devil wears Prada.

E in effetti dietro questa polacchina – che definirei da diporto – della collezione invernale, coda, forcone e zoccolo un po’ s’intravedono.

Siamo grati alla commedia americana ( in genere) per l’intelligente divertimento e gli utili consigli di stile. Le scarpe poi –  io me lo ripeto da sempre –  sono un significativo emblema del costante desiderio dell’Umanità di andare da qualche parte.

Non so se la teoria sia accreditata ma potrebbe. E comunque funziona benissimo per tacitare i sensi di colpa post incursione nel settore calzaturiero o per sostenere le incertezze dell’essere spesso  in desperate need of ...( scarpe, borse, cinture)

Volendo, le divine commesse ti rifilano anche la borsa nello stesso suede con frange e perline. Un po’ troppo da diporto  per una che con queste ai piedi andrà al lavoro. Magari di pomeriggio.( ma comunque stanno sotto la scrivania…chi le vede? E vabbè )

Qui ( tutto il meglio è già qui )

Qui ( tutto il meglio è già qui )

Mia zia ultraottantenne gioca a canasta o a ramino al mercoledì con alcune sue ex compagne di collegio. Ad altre, sparse in varie città,telefona o  scrive vere lettere con busta e francobollo. In queste occasioni apparentemente futili e ripetitive – siamo in pieno zibibbo al lampo che fu – è nascosto il segreto del non perdersi di vista.

Mio padre, per lo stesso motivo,  vede con regolarità e organizza viaggi con gli amici di sempre. E anch’ io, ho cercato nel tempo di preservare le storiche amicizie dalle difficoltà della vita in continua evoluzione : menage pazzesco, trasferimenti, professione totalizzante, figli da crescere, consorti e fidanzati accentratori. La relazione continuativa con un amico storico è un investimento che fa bene alla vita. Non organizzo tavoli da gioco a cadenza fissa – me ne manca il tempo –  ma avere tra i piedi  gente degli antichi giri, mi piace. Succede con gli amici quel che accade con i grandi amori : un cenno d’intesa e ti senti subito a casa. Senza tante storie.

Mentre le rimpatriate con vecchie conoscenze, dopo secoli di allontanamento sanno sempre un po’ di ufficio funebre, di passato che si è lasciato archiviare senza resistere e che forzatamente ritorna. Per cui la possibilità di ritrovare i compagni di studi che mi offre Facebook mi fa venire l’ittero. Tutto il meglio è già qui, come diceva quello, il resto appartenendo all’irrilevanza o allo Sciocchezzaio, l’ho mollato. Vade retro.

Il Manifesto dal suo sito nuovo di pacca, promuove il dibattito sull’utilità della comunicazione politica in rete e in particolare su Facebook. Dai blog in contemporanea si levano voci preoccupate, pare che il nuovo gioco sottragga accessi e commentatori ai siti dei diari personali. Tutti in ansia. Chi per le sorti dell’impegno politico,  chi per quelle della diminuita popolarità dei propri spazi di scrittura .

Ma nell’ipotesi fondata che l’aria che tira richieda articolazione del pensiero e dunque del linguaggio, piuttosto che la rovinosa contrazione di entrambi , approfondimenti piuttosto che spot, esame delle complicanze piuttosto che elogio della semplificazione, il fatto di scambiarsi  short message e  facce, non mi pare interessante ne’ utile a nessuna causa. Anche sul piano personale, il metodo appare decisamente  una limitazione a chi è abituato a mantenere in piedi relazioni funzionali. A meno di avere uno scopo preciso – promuovere il proprio lavoro,  per esempio o altre analoghe iniziative – queste casuali liste cariche di emeriti sconosciuti, alimentano solo l’illusione di esserci e di contare ovvero di avere molti amici, ignorando che le relazioni sono un lavoro e nemmeno di quelli troppo lievi. Averli tra i piedi, come ho già detto mi piace, ma è un privilegio che non mi è piovuto dal cielo.

Lo stesso vale per la comunicazione politica. Obama ha vinto servendosi della Rete ma aveva un progetto, soprattutto si è fatto una scarpinata in lungo e in largo per il suo paese, incontrando persone, gruppi, fondazioni, imprese, raccogliendo molti quattrini che hanno consentito a lui e ai suoi, il prosieguo di quell’impresa. Poi, il senso del suo del lavoro svolto è stato raccontato in Rete, cercando di mettere ad ulteriore profitto moltiplicandolo, il valore di quell’esperienza. Poi.

Il resto, cioè tutto quello che può succedere in questi non luoghi in cui ci viene promessa  comunicazione a buon mercato e socializzazione come se piovesse, ha senso solo se da qui viene trasferito fuori , stabilendo una corrispondenza tra le due dimensioni. Bene fa la sinistra ad essere in cielo, in terra e in ogni luogo vi siano esseri umani con i quali interagire. Conoscere gente nuova come cementare le vecchie amicizie e comunicare non è un problema nella vita. Basta avercela, una vita. E un messaggio. Qualcosa da dire.

 Ma per tornare a noi, i luoghi vanno custoditi, richiedono cura. Annaffiate le piante, rinfrescate le tende, preparato il trattamento per gli ospiti, andrebbero riempiti di contenuti, se i mercoledì di mia zia fossero fatti di solo allestimento, sarebbero finiti da un bel pezzo. E con essi, l’occasione per trovarsi.

Gli accessi vengono meno a fronte di un procedere stanco, nella riproposizione di uno schema o di un personaggio, sempre quello : il Malinconico, l’Ironico, l’Arrabbiato, il Pensoso, l’Amorosa, il Saggio, la Tempesta Ormonale o il Ciclotimico. Fossero messe innanzi a queste pagine elettroniche le Persone e non i Personaggi, ciascuno col proprio bagaglio, la musica cambierebbe e non ci sarebbe bisogno di cambiare piattaforma per rigenerarsi.

La storia dell’interazione in Rete, del resto, è storia di migrazioni – che un po’ sanno anche di fuga –  per cui, esaurito un territorio, invece di intensificare fertilizzanti e semina, in un’opera di riqualificazione costante, ci si trasferisce direttamente in altro luogo per ri-cominciare, ri-seminare, ri-coltivare e presumibilmente prepararsi ad altro trasloco, per questo la trasmigrazione su Facebook che svuota blogopoli, non mi impensierisce più di tanto.

 Qui si pensa di restare, senza inaugurazioni di altre case chè di gestirne due non si ha tempo, voglia e forse predisposizione. Un po’ per la curiosità insopprimibile di vedere come se la sbroglia – ovvero dove vuole andare a parare –  il Malinconico e la Pensosa, cercando nel contempo di seguire i consigli degli economisti alle imprese in tempi di crisi : investire, innovarsi, resistere. Il che oltretutto, obbedisce alla natura di chi scrive. Qui.

Illustrazione di Babi, citazioni a piene mani dall’avvocato Conte

Scene di caccia al topo di fiume

Scene di caccia al topo di fiume

Siccome per la battuta di caccia serale, la scelta del territorio spetta a lui, la meta è sempre la stessa : l’Isola o le banchine circostanti. Presumibilmente per quell’illusione di “natura selvaggia” che flora fauna & fiume offrono tra Ponte Sublicio e Ponte Garibaldi. Il Gianicolo, Riserva preferibilmente diurna, non offre le stesse chances di avventura

A destinazione potremmo arrivare imboccando il  viale, dritto per dritto, e invece niente. A lui piace prenderla alla larga, passare per Porta Portese costeggiando il San Michele, in quel tratto di lungotevere che fu di Sciuscià, di Ladri di biciclette, di Adua e di C’eravamo tanto amati. Proprio nel punto in cui Nicola dice ad Antonio che lui è politicamente e culturalmente,  più oltre, si può scendere sotto Fiume e una volta lì, rincorrere le papere, i germani, i topi e le nutrie sul greto. La caccia è, per convenzione stipulata a suon di urlacci e punizioni, rigorosamente incruenta.

In questi giorni d’impraticabilità delle banchine, ha osservato con ansia dal Lungotevere l’evolversi dei fatti. Un’occhiata di sotto, e una – molto demanding – a me che, in quanto provvisorio capobranco, dovrei avere tutte le risposte :  comandare pioggia,  vigili del fuoco,  protezione civile, netturbini, l’onda di piena e le maree.

– Ancora non si può scendere, non vedi che fangaccia? –
Manteniamo vivo il dialogo, motivando i divieti  anche col cane. Poi per consolazione, concediamo il proibitissimo salto nei mucchi di foglie bagnate. Comprarsi i guai con i soldi propri, si dice da queste parti.

 

Stefano

Stefano

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Le cose andarono così, come lui le ha cantate in Bologna 77 . Dietro a quei testi senza complicazioni all’apparenza, c’era un sentire comune. E abitudini di vita. Lo salutiamo stamattina in Santa Maria, la chiesa che si trova girato il vicolo. Quello in cui, Stefano sta appostato, minaccioso.