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Tag: Guerra e pace

Muri, fili spinati, reti, check point

Muri, fili spinati, reti, check point

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Tra Ceuta e Melilla ci sono 223 km di barriera volute da Aznar e potenziate da Zapatero. Dividono l’Africa dall’Europa.Con tutto quel che significa.

Nel Sahara occidentale una massicciata lunga 2.570 km segna l’appropriazione – illecita – del territorio saharawi da parte del Marocco.

Tra il Botswana e lo Zimbawe 500 Km di  rete elettrificata impediscono l’ingresso illegale degli zimbawesi in fuga da fame, miseria e persecuzione.

Tra Messico e Arizona, California, Nuovo Messico e  Texas, una barriera di 550 km variamente composta ( muri in cemento, fili spinati, reti elettrificate) protegge gli Usa dall’immigrazione clandestina.

E ancora in North Corea, Bangladesh, Tibet, Birmania, Kashmir, Afghanistan, Uzbekistan Khazakistan, Yemen, Gaza, Cipro e nelle città di Baghdad e Padova –  via Anelli, persistono muri, superstrutture, recinzioni, barriere già costruite o costruende,  per proteggersi dall’immigrazione, dal terrorismo dalla Paura.

Nel giorno in cui si celebrano la Caduta del Muro e la rinascita di un sogno di democrazia, è giusto ricordare le  migliaia di muri sparsi in tutto il mondo che restano ancora da abbattere.

Made in Israel

Made in Israel

Nel momento in cui i conflitti sparsi per il mondo ci vengono rappresentati  soprattutto attraverso la diffusione di migliaia di immagini, un Cinema che racconti la guerra potrebbe assumere un significato di tutta  marginalità Così non è, anche se la visione spesso impietosa di corpi martoriati, soldati all’attacco, o gli skyline di città lontane illuminate a giorno dalle esplosioni o le popolazioni in fuga con i loro poveri bagagli e i figli tra le braccia, dovrebbero parlare alle coscienza più di molte parole e di molte fiction.

Tuttavia esposti come siamo ad indistinto e casuale bersagliamento mediatico, il rischio assuefazione da immagini  embedded o da una riproduzione per eccesso che  privi le stesse  della capacità d’ impatto o di ribellione, esiste. Dunque noi dovremmo essere grati a quel cinema che lungi  dall’assillo delle risposte o delle spiegazioni o della tesi da dimostrare, costantemente impegnato in una sorta di ricerca di modalità in cui l’immagine ritrovi la sua potenza e la sua natura politica. Qui di seguito due distinti esempi di cinema israeliano di eccellenza in cui quella ricerca ha dato esiti di grande efficacia, ingaggiando una sfida alla realtà che non è solo la sua narrazione.


Stile graphic novel ma anche  manga e pop art in elegante abbinamento, per questo Valzer con Bashir, cartoon dell’israeliano Ari Folman. Presentato a Cannes 2008 proprio il giorno dell’anniversario nella nascita dello Stato d’Israele, festeggiato, quest’ultimo, da visita ufficiale di George Bush a Tel aviv e incursione aerea israeliana su Khan Yunis  –  stessa località in cui qualche giorno fa tre soldati israeliani caddero vittime del fuoco amico – seguita da rituale lancio di Katiuscia da Gaza, con buona pace di Frattini & Co che va ancora cercando, in questo groviglio di eventi, chi ha cominciato.

Film che sarà (casualmente ) nelle sale da domani e che affronta uno dei capitoli più dolorosi della questione   mediorientale. Anno 1982, guerra nel Libano, falangisti cristiani per vendicare l’omicidio di Bashir Gemayel, neo presidente libanese, massacrano oltre tremila palestinesi trai quali anziani, donne e bambini, nei campi di Sabra e Chatila con la complicità dell’esercito israeliano.

In Israele si è soldati oltre il raggiungimento dell’età matura, tuttavia i riservisti possono anticipare il congedo, Folman ne fa richiesta. L’iter burocratico  prevede il colloquio con uno psichiatra. Folman, diciannovenne, era di stanza a Beirut nei giorni del massacro, ma di quel periodo non conserva ricordi  nitidi, solo è  perseguitato da  incubi ricorrenti

E’ un’esperienza comune ad altri ex commilitoni,  come quello della  muta terrificante di cani che corre in città e che travolge ogni cosa finchè si ferma minacciosa sotto le finestre di un ragazzo che è poi la sequenza di apertura del film. Lo psichiatra spiegherà che il meccanismo di rimozione è comune in molti ex soldati. Di qui, dal vuoto,  l’esigenza di rimettere insieme  il puzzle attraverso memorie rimosse, trasformate in sogni o deliri. Un percorso cognitivo, al quale parteciperanno ex commilitoni o testimoni diretti convocati da Folman tramite un annuncio su internet. Ho ricevuto più di cento telefonate : dopo tanti anni le persone  avevano voglia di raccontare la verità.

Una galleria di interviste e di racconti, da quello dell’ufficiale che consuma pornografia a quella del soldato che si produce in una danza sparando all’impazzata sullo sfondo di una gigantografia di Bashir Gemayel. Poi ci sono i compagni di allora, giovanissimi, terrorizzati, sui tank  impreparati a trovarsi in mezzo alla macelleria di ragazzini e di intere famiglie.Non ci sono esitazioni  nel definire la guerra insensata e inutile come pure l’invasione del Libano che non portò a niente, attraverso il racconto dell’abbrutimento degli uomini in divisa giovanissimi, inebetiti e incoscienti, catapultati in mezzo alle pallottole dei cecchini.

 

Ari Folman sceglie il disegno, l’animazione come strumenti attraverso i quali realtà  e delirio si possono rimescolare con assoluta efficacia. Immagini crude e dolorose quando è di scena la guerra, puro piacere visivo quando la rappresentazione richiama l’inconscio, il sogno. Solo così il regista  può esprimersi pienamente e nel contempo tener fede al proprio cinema di riferimento : uno spirito d’indagine alla Rashomon, la citazione esplicita di Apocalipse Now nella sequenza della spiaggia e del surfista col mitra.

Ma tutto ciò è premessa della sequenza finale affidata questa volta alle immagini verità introdotte da una bambina disegnata come un angelo dormiente tra le macerie : la visione disumana dei corpi martoriati, le urla di dolore : il sangue di Sabra e Chatila non si può reinventare con immagini, ne’ ci sono parole adatte a descriverlo. Quel vero così atroce è il mio giudizio su quel che è accaduto.

Colpisce moltissimo, il personale doloroso sforzo di fare i conti col proprio passato di soldato, del regista. Quantunque alla verità storica su Sabra e Chatila manchi qualche elemento in più in ordine alla responsabilità diretta di Ariel Sharon nelle operazioni di distruzione dei campi, esiste in questo film la consapevolezza che gli psichiatri possono sostenere l’impegno a convivere con sensi di colpa individuali. Le responsabilità storiche rimangono. Tanto basta.

L’uscita nelle sale come già detto, è casuale rispetto agli avvenimenti di questi giorni, ma, fa notare Ari Folman, film del genere rischiano di essere sempre attuali, visto che tra i nostri governanti non c’è nessun rispetto ne’ pietà per la morte di altre persone.


Valzer con Bashir è un film di Ari Folman del 2008. Prodotto in Francia, Germania, Israele, USA. Durata: 90 minuti. Distribuito in Italia da Lucky Red a partire dal 09.01.2009.

 

 

Z32  invece, film del dissidente Avi Mograbi autore di opere fortemente critiche e di attacchi  diretti alla politica di Israele, almeno per ora, non è in programmazione nelle sale, ne’ si prevede a breve. Presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, racconta la storia della rappresaglia organizzata per vendicare l’uccisione di sei militari israeliani. Esecutori sono giovanissimi soldati delle unità speciali, sottoposti per mesi ad un duro addestramento il nucleo del quale è  uccidere l’arabo senza interrogarsi troppo L’ordine infatti è di colpire alla cieca.

Mograbi utilizza i materiali degli archivi di Shovrim Shtika –  Rompere il silenzio – l’associazione di ex-soldati che raccoglie le testimonianze di chi ha prestato servizio nei Territori occupati – Z32 è la sigla di alcune tra esse che riguardano, appunto, quella missione di vendetta.

Anche qui come per valzer si avvicendano interviste filmate dei protagonisti che però hanno il volto sfumato, per non essere riconosciuti. Ma nonostante simili siano i racconti, le rimozioni, la ricerca del perdono o l’indifferenza nei confronti del nemico, il taglio diventa altro nel momento in cui Mograbi coglie l’occasione per riflettere sulla responsabilità dell’artista nei confronti del racconto. Non si tratta dunque soltanto del conflitto tra Israele e Palestina, l’impegno costante del cinema di Mograbi, di allontanarsi dall’iconografia classica della guerra in medioriente, lo conduce al di là di Israele, a compiere un  indagine approfondita su che cosa vuol dire essere soldato.

 Non c’è dunque nessuna differenza tra i racconti di questi ragazzi  e i comportamenti dei soldati americani in Iraq , che neppure si sono preoccupati di celarsi nell’anonimato, esibendo anzi, le proprie prodezze e diffondendole in Internet, o di tanti altri eserciti in conflitti e occupazioni sparsi per il mondo. La differenza semmai concerne la reazione della collettività nella sua capacità di prendere le distanze di non uniformarsi alla visione univoca del nemico come terrorista in ogni caso. E dunque sul ruolo dell’informazione e delle immagini.

Il film non mostra le azioni di guerra, è girato in interni  mentre si avvale dell’unico esterno la ricerca e la ricognizione del luogo dove si sono svolti i fatti. I ragazzi non lo sanno, non ci pensavamo a dove eravamo diretti, mai, eravamo troppo stanchi, sui pullman si dormiva dicono. Mograbi lo trova. Nessuna traccia di violenza, soldati, armi. Una donna anziana attraversa il campo. Durante l’azione di rappresaglia nessuno si è  chiesto chi fossero le vittime e da quali famiglie provenissero. Erano poliziotti palestinesi, un vecchio disarmato. La rappresaglia, che brutti ricordi, la praticavano anche i nazifascisti durante la guerra, è stata messa in atto nella ex-Jugoslavia, in Vietnam… Se mi vedono e esco da Israele magari mi arrestano per crimini di guerra chiosa un ragazzo.

 

Z32 è un film di Avi Mograbi. Genere Documentario, 81 minuti. – Produzione Francia, Israele 2008.

 

 

 

 

 

Diplomazia al lavoro

Diplomazia al lavoro

Oggi il problema è Hamas. Capisco chi vorrebbe negoziare ma l’Unione europea e Israele giustamente non l’hanno fatto….Dopo cinque minuti dalla fine della tregua Hamas ha ripreso a lanciare razzi contro Israele continuando un’azione francamente sconsiderata……
Se Hamas avesse detto sì
” al cessate il fuoco “Israele si sarebbe già fermata“, ma “la disponibilità di Hamas non c’è stata e per ora non c’è. L’organizzazione terroristica palestinese non è un interlocutore politico e rifiuta tutto quello che la comunità internazionale propone”.

Franco Frattini

Nel momento in cui l’impegno dei negoziatori è teso – come sempre in questi casi – a ricercare, in calce ad un difficile accordo, formule  che non urtino le suscettibilità e non umilino l’orgoglio delle parti in conflitto, sembra impossibile che un ministro degli esteri possa usare espressioni di tale disinvolta parzialità. Eppure Franco Frattini queste parole ha pronunziato in sede di Audizione, all’indomani del bombardamento israeliano della scuola ONU dei profughi – 42 morti da aggiungersi agli altri, oltre 600, dei giorni scorsi,  e manco l’ombra di un terrorista o di una rampa di cosidetto missile in quelle aule – consegnando così il nostro paese al ruolo meschino, defilato e poco dignitoso, sul piano internazionale, di cieco supporter. Nemmeno gli americani, impegnati con Mubarak a scambiare il controllo del valico di Rafah e dei tunnel scavati sottoterra contro lo stop dell’avanzata di terra di Tsahl, osano un simile linguaggio. Le responsabilità hanno un peso differente a seconda dei punti di vista, ma comunque la si pensi, la tregua è obiettivo minimo ed indispensabile, ottenerla importa un lavoro in cui è necessario rimuovere dalla trattativa ogni elemento di partigianeria ad evitare che il dialogo degeneri creando un ulteriore zona di conflittualità. A meno di credere nella bontà  della prova di forza, della lezione da infliggere ai terroristi, analisi spicce e giudizi sommari andrebbero evitati. Umiliare Hamas o peggio, auspicarne lo sterminio significa assottigliare le possibilità  dei moderati di Fatah. Significa gettare le basi per non finirla mai.

Dunque, dimentico oltretutto, di quanto è in gioco su quel palmo di terra, origine di tutti i conflitti con il mondo islamico e incurante delle minacce costituite da Hezbollah o delle centinaia di martiri pronti a intervenire, il problema, secondo Frattini, è Hamas al quale non è nemmeno sufficiente aver vinto le elezioni per essere definito  interlocutore politico. Che acume.

 

Attacco da terra (nel giardino dei limoni)

Attacco da terra (nel giardino dei limoni)

L’anno sarebbe potuto cominciare con un Giardino di limoni in Cisgiordania, luogo di bellezza e ragione d’orgoglio per la proprietaria e coltivatrice palestinese Salma Zidane e con il bel film /apologo che ne racconta le vicissitudini incentrate sulla battaglia legale contro un vicino di casa, appena giunto ma non qualsiasi,  ministro di giustizia israeliano, che nei rami  di quel pezzetto di paradiso, vede solo potenziali e minacciosi ricettacoli di attentatori. E che per ragioni di sicurezza fa avvolgere il giardino in reticolati, impedendo così che le piante di limone vengano curate.

Non propriamente una favola bella, anche se Salma infine la spunta, caro le  sarà costato l’aver ragione, pagando con il senso di solitudine, la mancanza di sostegno  da parte di chi, esponente della comunità islamica, dovrebbe essere naturalmente dalla sua parte e invece coglie l’occasione per  rimproverarle  qualche velo di meno e qualche atteggiamento indipendente di troppo.

Tuttavia un quadro metaforicamente esatto, all’interno del quale arrivano a Salma inviti a desistere da parte del figlio che la vorrebbe con sè a Manhattan, strumentalizzazioni del proprio avvocato, sulla scrivania del quale sventola la bandierina dell’Autorità Palestinese, ma più desideroso di farsi un nome con la causa del giorno – vera peraltro – che di occuparsi dei problemi dell’assistita, ma anche inattesi sostegni da parte di altri cittadini di serie B – la moglie del ministro, anche lei vessata dal consorte, giornaliste locali  etc – perlopiù donne. Anzi solo donne.


Invece l’anno si apre con l’ennesima attesa dell’attacco di terra, con la guerra infinita, con il fallimento delle diplomazie e con l’impraticabilità del compromesso, dunque con il naufragio dell’idea stessa di negoziato. Credo non ci sia altro dato di rilievo, altro punto chiave per un’analisi della situazione mediorientale oggi  che possa prescindere dal fatto che non c’è posto del pianeta in cui ogni terreno di possibile incontro sia così irrimediabilmente devastato.

Di qua e di là, all’interno degli stessi schieramenti, divisioni profonde, fratture insanabili, impediscono alle parti, prive della necessaria compattezza, di trattare. Siamo oramai oltre l’idea pura e semplice dei due popoli che si contendono la stessa terra, mentre si acuisce, disseminando il terreno di moltiplicatori d’odio , lo scontro di culture, religioni e visioni del mondo.

In entrambi i campi, a breve, sono in programma cambi di  vertice, a giorni scade il mandato di Abu Mazen, leader dell’Autorità Palestinese di Ramallah,  contestato da Hamas ( vincitrice delle ultime elezioni)  per presunto collaborazionismo con Israele. Dall’altra la contesa elettorale che vede in corsa  il Kadima della Livni e il Likud di Netanyahu, il partito dei falchi, per la poltrona di primo ministro. A nessuno dei contendenti , in una simile congiuntura e con lo scontro in atto, è concesso dar prova di debolezza.

Non c’è via di scampo se in ciascuno stato, ciascuna fazione deve prevalere sull’altra rassicurando gli elettori sulla propria capacità di essere nel conflitto. Non nella trattativa, avverso la quale lavorano i falchi  Quand’è così, è fatale che una politica di pace sia  umiliata , e che nei reciproci schieramenti, sia destinata a dettare legge, comunque ad essere il trainer delle decisioni, l’ipotesi del conflitto come soluzione unica.

Quasi cinquecento vittime per un ennesimo scontro che, una volta cessato il fuoco, non avrà spostato di un  millimetro la situazione. E non è finita qui. Perchè tale è la desolazione che a voler anche solo immaginare i connotati di una task force di mediazione, non se ne trovano di possibili.

A parte, ovviamente, la speranza nelle capacità del  neo eletto presidente nel paese principale alleato d’Israele. Un altro compito per Obama.

Dunque non passa in sott’ordine anche se non inaugura propriamente i post dell’anno  Il giardino di limoni di Salma, film dell’israeliano – tenere sempre d’occhio il cinema di questo paese – Eran Riklis che ci parla, attraverso l’imprigionamento di un campo, della violenza delle politiche di apartheid, di fanatismo, di machismo e delle disattese risoluzioni ONU. Ma soprattutto in una piccola storia, adottando uno stile, non a caso documentaristico, la strenua caparbia difesa di ciò che si ama.

Il giardino dei limoni è un film di Eran Riklis. Con Hiam Abbass, Doron Tavory, Ali Suliman, Tarik Kopty, Amos Lavi  Drammatico, durata 106 min. – Israele, Germania, Francia 2008. – Teodora Film.

Chi sei

Chi sei

Mumbay5

Di lui e dei suoi compagni – circa duecento, più o meno della stessa età –  conosciamo la fisionomia e degli attentati di cui si sono resi responsabile a Mumbai , siamo stati informati, in alcuni casi in tempo reale, grazie ai media mainstream, alle tecnologie e alla Rete ( twitter, blog, persino flickr ).

C’è tuttavia uno scarto enorme tra la possibilità di conoscere e divulgare particolari, anche i più  infinitesimali, e il fatto che di tutto il resto, cioè di quel che è dietro questi giovani terroristi,  non si sappia praticamente nulla. Come se quegli stessi  particolari, il kalashnikov, lo zainetto, lo sbarco dal gommone, la precisione simultanea degli attacchi, fossero inutili ai fini della quadratura del cerchio. In questo contesto,  persino l’aver individuato un  braccialetto arancione al polso dei componenti il  Commando, è risultato fuorviante.  

Rivendicano la strage i Deccan Mujaheddin, sigla fin qui sconosciuta, con tipico linguaggio jiadista. Così giovani. E pronti a morire. Per cosa? C’entra Al Qaeda? Fanno parte di una comunità locale? Sono sovvenzionati dal Pakistan? Dove si sono addestrati?

Nessun meticoloso citizen journalism, nessuna Intelligence, nemmeno quelle più equipaggiate, sembra essere in grado di dare una risposta. Solo congetture.

 Un attentato l’anno, negli ultimi tre anni, nella sola Mumbai. In questo caso  però sappiamo, analizziamo, commentiamo ed esecriamo,  solo per la presenza nei luoghi delle stragi, di cittadini occidentali.

Ci sono stati attacchi, tuttavia,  anche in  Bangalore, Jaipur, New Dehli, Rajastan. Una carneficina fitta di luoghi, se la guardi su di una mappa, ma che spesso finisce nelle pagine interne dei giornali.

 A meno di potersene servire per agitare Mostri e chiedere misure restrittive nei confronti dei cittadini di religione islamica che vivono qui da noi, in genere, tutto tace.

Siamo nelle mani di  questi figli di un temporale, come li avrebbe definiti qualcuno? Probabilmente,  ma soprattutto sono state  politiche internazionali perdenti e  sconsiderate ad accentuare i drammi e a buttare benzina sul fuoco, negli ultimi anni. E ad esporci. Speriamo sia finita quell’epoca.