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Categoria: Venezia 2016

For one brief shining moment there was Camelot

For one brief shining moment there was Camelot

Voglio che vedano quello che hanno fatto a John disse rifiutando il cambio d’abito per il giuramento di Lyndon Johnson sull’aereo presidenziale che la riportava a quella che non sarebbe più stata la sua casa.

Oggi quel tailleur rosa con i revers blu navy – confezionato in America, in omaggio ad una tradizione patriottica ma con stoffa, passamaneria, bottoni Chanel –  macchiato del sangue di John Fitzgerald  è ripiegato sottovuoto in una scatola presso l’Archivio Nazionale.Per volere di Caroline Kennedy, potrà essere mostrato al pubblico solo tra una sessantina d’anni, nel frattempo è affidato alle cure scrupolose di addetti che verificano costantemente il clima della stanza onde preservare l’integrità della stoffa.

Status symbol dell’epoca – e di molte altre a seguire –  quell’abito insanguinato, parla di Jackie come nessun altro suo celebrato accessorio o giardino di rose o restyling della Casa Bianca. Utile comprimario in un film che non è precisamente un biopic ma il racconto dei quattro giorni successivi al funerale di JFK , una sorta di puzzle di piani narrativi e spezzoni d’epoca composto e ricomposto in cui convergono stati d’animo diversi e contrastanti a formare un ritratto incisivo e veritiero.

Nel film sono così mescolati  il senso della perdita, il dolore, la violenza subita, lo smarrimento assieme ad una ferma volontà di consegnare alla Storia un’immagine di JFK perfetta ed eroica da destinare all’immortalità. Come in Camelot – mito dei Kennedy – la favola che non può tornare ma che tutti ricordano.

Dunque la pretesa di Jackie di un funerale grandioso, solenne uguale a  quello allestito per Abramo Lincoln  o la successiva intervista con Theodore White  che lei stessa richiese a Life. Scelta non casuale quella di un magazine molto popolare e di un giornalista affidabile la cui ammirazione per JFK era nota fin dalla campagna presidenziale.

Qualcuno dice che la politica spettacolo sia cominciata proprio durante la presidenza Kennedy   a partire dal documentario White House Tour  in cui Jackie nel ruolo  della first lady ovvero della perfetta padrona di casa aveva mostrato gli  importanti e costosi restauri fatti eseguire da John dopo l’Insediamento:  Jackie stessa aveva seguito i lavori ammodernando dov’era necessario o recuperando opere d’arte e mobili d’epoca, imprimendo insomma a quegli ambienti il segno del  suo gusto impeccabile.

La trasmissione del documentario fu seguita da 80 milioni di telespettatori il 14 febbraio 1962 sulle reti CBS, NBC e ABC e successivamente venduto in una cinquantina di paesi. Un evento televisivo di straordinaria portata, inedito per l’epoca. Fino a quel momento la giovane coppia si era fatta ritrarre in mille atteggiamenti quotidiani e non, sempre perfetta, elegante, sorridente. Ora entrava direttamente nelle case degli americani. Jackie aveva da tempo  intuito  l’importanza dell’immagine e ne sfruttava ogni possibilità.

Quando John muore Jackie è già un’icona di stile, è quello che tutte vorrebbero essere.

Tutto questo, il film di Pablo Larrain mostra puntualmente grazie allo script di Noah Oppenheim, presidente di NBC News,  più giornalista che sceneggiatore dunque,  in grado di descrivere le dinamiche della politica e dei media forse meglio che quelle dei sentimenti. Il che non riesce comunque a compromettere la ricostruzione del mito di Camelot,  caro a John e a Jackie, che del film è il vero motore.

A tratti l’ammirazione (di tutti:  dalla Portman al regista passando per lo sceneggiatore ) sembra debordare ed è lì che il rischio  melò o santino si fa più concreto. Ma sono attimi, l’effetto Jackie, tutt’ora vivo, non è fondato sul niente infiocchettato da donna solo elegante ma  su autentica intelligenza  unita a grande abilità. In definitiva era lui,il presidente, per sua stessa ammissione, che accompagnava lei nelle visite ufficiali. E se lui sarà ricordato per il buono che ha fatto e non per altro, ciò  lo si deve soltanto a Lei.

 

Each evening, from December to December

Before you drift to sleep upon your cot

Think back on all the tales that you remember

Of Camelot

Jackie è un film di Pablo Larrain. Un film con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt, Richard E. Grant.Cast completo Titolo originale: Jackie. Genere BiograficoUSA, Cile, 2016, durata 91 minuti. Distribuito da Lucky Red.

Dove tutto può succedere

Dove tutto può succedere

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Cinema Vesuviano –  per gli amanti dei cataloghi – in cui il paradosso è un nobile stratagemma, ovvero l’unico modo per raccontare con esattezza una realtà che abitualmente travalica la fantasia.L’unico per non scivolare in uno dei tanti cliché legati al territorio :  dalla necessità che genera comportamenti al limite, al paganesimo del sentimento religioso,all’arte di arrangiarsi. L’universo che vi risiede non è mai troppo facile da definire sebbene il bozzetto –  perfino quello di qualità – imperversi da anni, tingendosi ora di nero,ora di rosa, ora di grottesco.Questo film sfiora tutti questi generi  ma  con la mano felice di chi conosce assai bene la materia e crea una modalità a sé.

 

Ed ecco a noi  l’impresa di Castelvolturno Viola & Desi,  siamesi da baraccone esattamente come le  Violet e Daisy di buona memoria. Freaks dunque, laddove i mostri, in questo caso come nell’altro, non sono certo le indivisibili sorelle neomelodiche (in puro stile Tatangelo prima della cura) per feste, comunioni e processioni a campare la famiglia intera con performances di indiscutibile e locale successo, non si capisce bene se dovuto alla particolarità fisica o al talento.Che tuttavia posseggono, esattamente come le due decise individualità  che vorrebbero esprimere ciascuna per proprio conto, grazie ad un semplice e possibilissimo intervento chirurgico di separazione.Gemelle, sotto questo aspetto,esemplari. Quel che succede al mondo che sta loro intorno a fronte di questa legittima aspirazione è uno dei temi chiave del racconto.

 

Incantevole – in senso stretto – film diretto da chi, come era già successo con Perez e Mozzarella story, aveva già dato prova di abilità nel penetrare ambiti locali e umane debolezze.

 

E pazienza se Desi e Viola non andranno a Los Angeles (anche nella finzione avrebbero voluto…).Forse è più giusto che data la generale indifferenza – quando non l’aperto disprezzo –  sia il racconto dei poveri cristi in mare a parlare di Noi. Vincere stavolta è meno importante. E poi non è detto.

 

Indivisibili è un film di Edoardo De Angelis. Con Marianna Fontana, Angela Fontana, Antonia Truppo, Massimiliano Rossi, Toni Laudadio durata 100 min. – Italia 2016. – Medusa

 

 

Quando si dice visione

Quando si dice visione

lav-diazAddentrandovi nelle pieghe della Rassegna Stampa Veneziana  leggerete che The women who left, Leone d’oro 2016, è un film di ben 226 minuti (con uno o più punti esclamativi o puntini di sospensione a piacere)  e che tale perniciosa dilatazione dei tempi,  definita con grande  spreco di aggettivi  acquatici (fluviale, torrenziale etc), concilia il sonno o la fuga dalla sala. Rivendicando  il critico il proprio sacrosanto diritto di spettatore ronfante o fuggitivo, apprenderete così che egli  ne scrive avendo visto, se va bene, il film a metà.

A seguire e per meglio accompagnare la disperazione con straccio delle vesti di Distributori ed Esercenti,  vi sarà anche offerta l’occasione di apprezzare l’expertise  di campioni del box office italiano  i quali, pochissimo tergiversando, concluderanno  che certi premi non aiutano. (altri che non hanno visto ma ne parlano si aggiungono alla fitta schiera)

Infine che The women who left è un film noioso.

Tutto qui? Più o meno

Se non la ritenessi indispensabile mi verrebbe da scrivere lasciate perdere la critica e  andate egualmente a vedere questo film destinando alla visione le aspettative che merita. Oppure che la dicitura completa del Festival continua ad essere Mostra d’arte cinematografica e comunque che il cartellone di quest’anno, ben calibrato tra film noiosi – un nuovo genere? – e rutilanti di hollywoodiana fattura, offriva a noi ampia panoramica sullo stato delle cose cinematografiche nel mondo e, di conseguenza, alla Giuria discreta possibilità di scelta.

Oppure adottando una modalità di argomentazione ironico-paradossale molto in auge, che, in fondo rispetto  alle nove ore di  Death in the Land of Encantos, il regista  Lav  Diaz con questi suoi ultimi duecentoventisei minuti ha finalmente trovato la sintesi.

Invece dirò che per raccontare (mostrando e non spiegando)  la Complessità in contesti di cui così poco sappiamo, la dilatazione del tempo attraverso lunghe inquadrature e i dialoghi ridotti all’osso fanno parte di una scelta artistica  plausibile e sin necessaria all’Idea di Cinema che Lav Diaz ha ben impressa nella mente. E che quando da location per niente accattivanti emerge così immediata la Bellezza, siamo di fronte all’esito di  una lavorazione attenta e  meticolosa  affidata a specialissimi effetti quali l’impiego del bianco e nero, un modo particolare di usare la Luce, una recitazione ineccepibile.Quando si dice un gran mestiere.

Ecco perché una Mostra che si rispetti non può esimersi dal promuovere questo cinema che diversamente, data la scarsezza complessiva dei mezzi ( 75.000 dollari di budget) non troverebbe – e sarebbe un peccato –  cittadinanza nemmeno nei circuiti più segreti e  misteriosi della cinefilia arrembante.

Poi certamente ci sono i gusti ma se la Critica dovesse essere affidata solo a quelli allora tanto varrebbe far scrivere di cinema la Santanché e il suo nuovissimo innamorato Dimitri d’Asburgo – Qualcosa, rincorsi sul red carpet e intervistati sul tema dell’Amore che, manco a dirlo, vince sempre.Roba che manco all’epoca del Conte Volpi.

The women who left è una storia (liberamente tratta da un racconto di Tolstoj Dio vede la verità ma non la rivela subito) di una donna accusata ingiustamente di omicidio che, finalmente riconosciuta innocente, esce dal carcere dopo trent’anni e ritrova un Paese in cui sono rimaste immutate solo violenza e ingiustizia.Temi non inediti della Casualità che soprintende le nostre vite e della umana fragilità sobriamente ed sviluppati in elegante e non fine a se stessa cornice.

Grande prova della protagonista Charo Santos-Concio impegnata a rendere con evidenza il ruolo non semplice di chi è alla ricerca (desiderata e temuta) della vendetta nei confronti del suo accusatore ma anche di una sorta di propria  riedificazione di se stessa vissuta e realizzata attraverso la  solidarietà nei confronti di un’umanità dolente e messa forse peggio di lei. Da vedere con animo sgombro da preconcetti.

 

Dedicato dal regista al popolo filippino per la sua lotta e alla lotta dell’umanità.The women who left è un film di Lav Diaz. Con Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz, Shamaine Buencamino, Nonie Buencamino Titolo originale Ang babaeng humayo. Drammatico, durata 226 min. – Filippine 2016.