Ecco
(La une de Libération oggi)
(La une de Libération oggi)
Non so se possa essere considerato provinciale chi si rallegra per la mancata affermazione della fascistona xenofoba e negazionista Le Pen . Anche se fosse solo per questo, il prevalere di Emmanuel Macron al primo turno dovrebbe essere una buona notizia per tutti. Francesi e non. Ora in attesa che le barrage républicain compia l’opera e che la Ragione continui ad avere la meglio sulla Paura, ci deliziano le domande epocali di casa nostra.
Chi è il Macron italiano?
Gli aspiranti Letta, Calenda, Renzi e, a quanto sembra, anche Parisi, si mettano l’anima in pace : col proporzionale e in totale assenza di spirito repubblicano, vedo difficile la configurazione di qualsivoglia analogia. Come pure queste frettolose esequie ai partiti tradizionali – in crisi certamente – o alla dinamica destra – sinistra in presunta dissoluzione mi sembrano indizio di conclusioni quanto mai superficiali. Tra secondo turno e politiche di giugno vedremo cosa sarà di queste analisi e dei francesi : quanto a noi, provinciali o cosmopoliti, la cosa ci riguarda più da vicino di quanto possa sembrare : siamo in Europa, e lì meno fascisti, sovranisti,nazionalisti, xenofobi e fascisti ci sono, meglio è.
In alto Foto Denis Allard. Réa pour Libération
Né Thelma né Louise – quelle che fin dai primi fotogrammi si capiva fossero in fuga precipitosa verso il baratro – ma nemmeno l’ennesimo stucchevole racconto di cura e redenzione della malattia mentale, dai letti di contenzione ai balli di gruppo come se fosse stata una passeggiata di salute, la Pazza Gioia è un film a sé, non catalogabile, lodevolmente e incredibilmente asciutto nella difficile descrizione del Disagio.
E il Disagio ha sempre una ragione riconducibile a fatti precisi che, nel caso del film in questione, vengono abilmente mescolati al racconto della fuga, non lo precedono né si materializzano tutti insieme alla fine a mo’ di Grande Rivelazione. Così, rimettendo assieme i pezzi, chi guarda si impossessa della storia ricavandone il bandolo ma soprattutto la consapevolezza che le due, fuggitive dalla casa di cura che le accudisce, siano le uniche riconosciute responsabili dei rispettivi guai. Gli altri : i padri, le madri, gli amanti, i mariti, i magistrati sorveglianti o giudicanti, pur risultando evidente il di loro apporto distruttivo, sono fuori, vivono la propria vita, liberi di combinare altri disastri. Di qui flussi di riflessioni a catena alla maniera di Virzì : non imposte ma garbatamente suggerite al fortunato spettatore.
I ringraziamenti per il premio ricevuto dal film, sere fa, andavano estesi e dunque non potevano essere contenuti in pochi secondi. Certo, ci sono i parenti, i figli, i fidanzati,i produttori e i colleghi ma anche i padri e le madri nobili che hanno silenziosamente contribuito alla Formazione di ciascuno di noi. Un talento del resto non s’improvvisa, poggia su quel tanto di innato, d’imperscrutabile ma per il resto è tutto fatto di duro appassionato lavoro.
Ecco : Le storie narrate in questo film sono l’esito del lavoro dei molti talenti sostenuti soprattutto da una consistente inclinazione letteraria, da una passione civile,seppur intensamente vissuta, mai sbandierata, da un grande amore per il cinema.
Sceneggiatori (in primis!) regista, attori, maestranze, Ispiratori a vario titolo. E’ toccato a Valeria Bruni Tedeschi, finta sciroccata di vero talento, animare un po’ il clima imbalsamato del maggior premio nazionale, enumerandoli : mancavano Dickens e Dumas ma per il resto c’erano proprio tutti.
La pazza gioia è un film di Paolo Virzì. Con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti, Tommaso Ragno, Bob Messini.durata 118 min. – Italia 2016. – 01 Distribution
Voglio che vedano quello che hanno fatto a John disse rifiutando il cambio d’abito per il giuramento di Lyndon Johnson sull’aereo presidenziale che la riportava a quella che non sarebbe più stata la sua casa.
Oggi quel tailleur rosa con i revers blu navy – confezionato in America, in omaggio ad una tradizione patriottica ma con stoffa, passamaneria, bottoni Chanel – macchiato del sangue di John Fitzgerald è ripiegato sottovuoto in una scatola presso l’Archivio Nazionale.Per volere di Caroline Kennedy, potrà essere mostrato al pubblico solo tra una sessantina d’anni, nel frattempo è affidato alle cure scrupolose di addetti che verificano costantemente il clima della stanza onde preservare l’integrità della stoffa.
Status symbol dell’epoca – e di molte altre a seguire – quell’abito insanguinato, parla di Jackie come nessun altro suo celebrato accessorio o giardino di rose o restyling della Casa Bianca. Utile comprimario in un film che non è precisamente un biopic ma il racconto dei quattro giorni successivi al funerale di JFK , una sorta di puzzle di piani narrativi e spezzoni d’epoca composto e ricomposto in cui convergono stati d’animo diversi e contrastanti a formare un ritratto incisivo e veritiero.
Nel film sono così mescolati il senso della perdita, il dolore, la violenza subita, lo smarrimento assieme ad una ferma volontà di consegnare alla Storia un’immagine di JFK perfetta ed eroica da destinare all’immortalità. Come in Camelot – mito dei Kennedy – la favola che non può tornare ma che tutti ricordano.
Dunque la pretesa di Jackie di un funerale grandioso, solenne uguale a quello allestito per Abramo Lincoln o la successiva intervista con Theodore White che lei stessa richiese a Life. Scelta non casuale quella di un magazine molto popolare e di un giornalista affidabile la cui ammirazione per JFK era nota fin dalla campagna presidenziale.
Qualcuno dice che la politica spettacolo sia cominciata proprio durante la presidenza Kennedy a partire dal documentario White House Tour in cui Jackie nel ruolo della first lady ovvero della perfetta padrona di casa aveva mostrato gli importanti e costosi restauri fatti eseguire da John dopo l’Insediamento: Jackie stessa aveva seguito i lavori ammodernando dov’era necessario o recuperando opere d’arte e mobili d’epoca, imprimendo insomma a quegli ambienti il segno del suo gusto impeccabile.
La trasmissione del documentario fu seguita da 80 milioni di telespettatori il 14 febbraio 1962 sulle reti CBS, NBC e ABC e successivamente venduto in una cinquantina di paesi. Un evento televisivo di straordinaria portata, inedito per l’epoca. Fino a quel momento la giovane coppia si era fatta ritrarre in mille atteggiamenti quotidiani e non, sempre perfetta, elegante, sorridente. Ora entrava direttamente nelle case degli americani. Jackie aveva da tempo intuito l’importanza dell’immagine e ne sfruttava ogni possibilità.
Quando John muore Jackie è già un’icona di stile, è quello che tutte vorrebbero essere.
Tutto questo, il film di Pablo Larrain mostra puntualmente grazie allo script di Noah Oppenheim, presidente di NBC News, più giornalista che sceneggiatore dunque, in grado di descrivere le dinamiche della politica e dei media forse meglio che quelle dei sentimenti. Il che non riesce comunque a compromettere la ricostruzione del mito di Camelot, caro a John e a Jackie, che del film è il vero motore.
A tratti l’ammirazione (di tutti: dalla Portman al regista passando per lo sceneggiatore ) sembra debordare ed è lì che il rischio melò o santino si fa più concreto. Ma sono attimi, l’effetto Jackie, tutt’ora vivo, non è fondato sul niente infiocchettato da donna solo elegante ma su autentica intelligenza unita a grande abilità. In definitiva era lui,il presidente, per sua stessa ammissione, che accompagnava lei nelle visite ufficiali. E se lui sarà ricordato per il buono che ha fatto e non per altro, ciò lo si deve soltanto a Lei.
Each evening, from December to December
Before you drift to sleep upon your cot
Think back on all the tales that you remember
Of Camelot
Jackie è un film di Pablo Larrain. Un film con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt, Richard E. Grant.Cast completo Titolo originale: Jackie. Genere Biografico – USA, Cile, 2016, durata 91 minuti. Distribuito da Lucky Red.
Piccola nota a carattere biografico in premessa :
Dico la mia, talvolta giudicando, perché nel corso di una non breve militanza, ho lavorato a progetti di interesse collettivo realizzati in nome e per conto prima del PCI, poi del PDS dei DS e infine del PD. E l’ho fatto sempre da una posizione di minoranza. Cioè combattendo resistenze, ostilità, personalismi. Tutto questo nella convinzione che l’utilità di quei progetti (asili nido, mense scolastiche, impianti sportivi, centri anti violenza tutti ancora funzionanti e al servizio dei cittadini romani) valesse bene il logoramento di una battaglia interna spesso aspra, rappresentando quei progetti il senso di un’appartenenza convinta : la mia.
L’istinto di fuga non è mai stato nelle mie corde mentre vale ancora la lezione ingraiana del “gorgo in cui rimanere e combattere” di recente evocata da Gianni Cuperlo in sede di Assemblea Nazionale. Dunque resto qui e sono ancora minoranza.)
E allora poiché mi piace parlare di politica, faccio finta che le recenti defezioni non possano essere causate dal profilarsi di una legge elettorale proporzionale buona solo a sollecitare frazionismi, tutele di rendite di posizione e revanchismi. Egualmente metto da parte la perplessità che mi suscita il rabbrividente, per fallimentare inattualità, titolo dell’impresa : Rivoluzione Socialista. Tralascio anche le molte contraddizioni, una per tutte quella su Gentiloni à la carte – Gentiloni for ever come merce di scambio.
Infine voglio ancora ignorare il fatto che lo specialissimo sentimento di odio nei confronti di Matteo Renzi abbia in sé qualcosa di talmente patologico e sospetto da ridurre la portata e, in qualche modo, offuscare le ragioni politicamente più nobili degli scissionisti.
Dunque, sgomberato il campo, come si dice in questi casi con brutta espressione, da retropensieri, processi alle intenzioni e visioni psicoanalitiche, un paio di dubbi permangono. Uno riguarda l’energia che i fuoriusciti hanno investito nell’andarsene e il perché la medesima foga non sia stata impiegata durante i mille giorni del governo Renzi nel doveroso tentativo di correggere via, via errori, veri e presunti, che invece oggi con intempestiva chiarezza vengono posti in forte rilievo come motivazioni imprescindibili della scissione.
In definitiva quale potrebbe essere stato il compito di una minoranza se non quello di proporre alternative orientando diversamente articolati e riforme?
L’altro riguarda la curiosa idiosincrasia per la conta (fase finale, forse poco elegante ma inevitabile di ogni processo democratico) che in tutti i casi ristabilisce l’entità dei rapporti di forza, come si sarebbe detto un tempo, oggi più pedestremente : di chi governa il partito e di chi aspetta con laboriosa pazienza di cambiare le cose.Una chiarezza necessaria che non può essere elusa, pena la perdita dell’ orientamento e di conseguenza del senso della realtà.
Non riesco a credere che, espletata una misera contabilità, gli scissionisti abbiano avuto una così scarsa fiducia nell’efficacia delle proprie ragioni da decidere di non sottoporre la proposta al vaglio di un Congresso. Rimandando quell’uscita con tanto di porte sbattute magari a dopo un confronto più ampio di quello offerto in Assemblea o in Direzione, avrebbero reso più dignitoso il distacco.
Che male hanno fatto a costoro gli iscritti? Perché ne hanno temuto il giudizio?
Il fallimento di un progetto politico cui si è lavorato per anni non dovrebbe consumarsi con un banale non ci sono le condizioni.
Soprattutto quando non è dato conoscere quali sarebbero state le condizioni per rimanere. In questa sarabanda di dichiarazioni e di retorica a suon di fumosi quanto desueti scenari federativi pro salvezza della sinistra, quando non della patria, francamente mi perdo. La conoscenza di certe dinamiche non mi soccorre, l’esperienza nemmeno. E so anche perché.
Ma per una volta la tristezza impedisce alla fatica dell’autocritica di trasformarsi in autolesionismo. I dubbi rimangono. Gli scenari che si profilano nella vita vera non possono essere contrastati con la frammentazione, casomai con l’Unità, costi quel che costi. Peggio della destra che comunque avanza, c’è questo farsi strada nella testa delle persone comuni dell’idea che protezionismi, sovranismi, e uomini forti più o meno soli al comando, potranno salvarci la pelle.
E contro queste distorsioni non basteranno le operazioni parlamentari, i tatticismi, e il risiko degli schieramenti, nemmeno di quelli dei più volenterosi. Servirà la forza di un pensiero autenticamente riformista a partire dalle piccole cose quali il licenziamento di una legge elettorale che non produca storture, alleanze spurie e pasticci vari. Servirà la correzione degli errori prodotti in corso d’opera e una fatica spesa in direzione opposta a quella fin qui messa in campo : quella della ricucitura. Solo un grande partito supportato dalla speranza che non sia già tardi potrà fare tutto ciò.
Nell’illustrazione Paolo Virzì sull’Unità di oggi, tenta, riuscendovi, di alleggerire il senso di amarezza.