Belli e morti

Belli e morti

l generalissimo Francisco Franco e Leonida Bresnev,si sa, sono sopravvissuti a sè stessi, al di là di ogni decenza .Belli e morti continuavano a essere mostrati nei telegiornali come se fossero ancora vivi onde evitare scompensi nelle masse e favorire elaborati avvicendamenti.Tant’è che ne per l’uno, ne’ per l’altro, si conoscerà mai la data effettiva del decesso, ma l’uno e l’altro,almeno quanto a prolungamenti virtuali dell’esistenza , sono destinati a scivolare nel dimenticatoio, oscurati dalla interminabile agonia di Osama Bin Laden.Ieri fuga di notizie con palleggio da spionaggio francese ai servizi segreti sauditi che lo davano per spacciato, ma mentre Chirac ordinava prevedibilmente un’inchiesta, Vladimir Putin ,lui si che se ne intende,spegneva gli entusiasmi paventando possibili manipolazioni, “Ogni fuga di notizie è mirata” ha dichiarato.Queste informazioni in realtà, rivelavano l’esistenza in vita di Bin Laden fino a un mese fa, in aperta contraddizione con la leggenda che lo voleva morto,  già da anni per un’insufficienza renale che la latitanza e l’ impossibilità di sottoporsi a dialisi,avevano impedito di curare.In realtà Bin Laden, dead or alive, occupa lo spazio virtuale continuando ad arringare le masse in video sulla cui veridicità, nell’epoca del ritocco digitale,è impossibile scommettere.E in questo spazio continuerà a predicare la Guerra Santa, ben oltre la riduzione delle sue ossa  in polvere e con la benedizione di Dick Cheney che ci ha promesso una guerra dei 50 anni contro il terrorismo.In questo ambito di moltiplicazione esistenziale,  s’inscrivono tutte le biografie, le congetture,le interpretazioni,lo studio del colore dei turbanti di Al Zawahiri ,le carte geografiche sulle possibili dislocazioni di grotte e spelonche ,le rielaborazioni di foto segnaletiche dell’ uomo, che quanto a terrorizzare ,se la batte col feroce Saladino e che è divenuto, grazie ad un battage pubblicitario non sempre autiprodotto, più famoso della Coca Cola..I maligni sostengono che in realtà l’Asse del Bene ha assoluto  bisogno del Nemico  per  realizzare il suo piano cinquantennale,dunque pochissimi hanno un vero interesse a celebrare le esequie di Bin Laden e  Osama, dalle mille vite ,c’è da esserne certi, non deluderà.

Usurpatori

Usurpatori

La più “ingenua” che m’è capitato di leggere è stata “io non sono pro islam” come se il dibattito intorno allo scontro di civiltà comprendesse un quesito binario come ai referendum. o peggio come fossimo allo stadio, curva nord o curva sud ? Alla fine di una defatigante competizione verbale svoltasi altrove, la misura dell’inutilità dei fiumi di parole spesi, sta tutta nella necessità che alcuni esprimono di “schierarsi” di essere pro o di essere contro .Come se si potesse saltar fuori da se stessi per andare a collocarsi in etnie, religioni e storie e filosofie  diverse dalle proprie.Quello che  si richiede oggi è esattamente l’opposto. La mia considerazione di chiusura posso depositarla seppur con rammarico, solo qui :

L’Occidente ferito ha reagito tirando fuori il peggio di sé. Si è diviso saccheggiando la galleria dei classici del pensiero moderno (peraltro già terremotata dai cambiamenti del mondo postmoderno), impugnando il Leviatano di Hobbes contro la Legge di Kant come se non appartenessero alla stessa matrice. E armato della gloriosa triade della civilizzazione occidentale otto-novecentesca – democrazia, giustizia, libertà – è partito per la conquista dei barbari con una guerra che di quella triade mostra solo le crepe profonde. . La guerra per la “giustizia infinita” e per la vittoria del Bene contro il Male ha stracciato cinquant’anni di diritto internazionale e ha riesumato una pratica di giustizia sommaria antecedente a qualunque Stato di diritto: detenzione infinita dei prigionieri di Guantanamo, riabilitazione della tortura come normale metodo di intelligence,  schedature delle comunità arabe. Io credo che dovremmo piangere sulle ferite inferte dall’Occidente a se stesso. Fuori dall’Occidente non possiamo cadere: non c’è un altrove che ci salverà dai suoi misfatti. Ma non possiamo neanche avallare tutto questo, stringendoci a corte di chi dai posti di comando ne sfigura eredità e esiti. Non è sulla linea del fronte contro lo straniero che la situazione ci chiama a combattere, ma sulle mille linee interne al fronte occidentale, nelle nostre quotidiane democrazie sfigurate. Se abbiamo a cuore le sorti dell’Occidente, non è dai barbari accampati ai suoi confini ma dagli usurpatori insediati ai suoi vertici che dobbiamo difenderlo

Invisibile

Invisibile

Produzione di opinioni a mezzo di opinioni: sappiamo bene che l’informazione e la comunicazione oggi funzionano così, e che il gigantesco dispositivo massmediale che comanda la nostra percezione del presente, a onta della moltiplicazione di fonti, notizie e commenti che continuamente produce, finisce paradossalmente col fornire pochi elementi originali alla comprensione dell’attualità. L’attenzione allo scarto e alla differenza, necessaria al pensiero per individuare i varchi del cambiamento possibile mal si concilia con il dispositivo della ripetizione cui tutto il sistema dei media è improntato. E l’ascolto di soggetti ed esperienze che restano ai margini dell’ordine del discorso dominante,viene anch’esso depotenziato da un sistema della comunicazione che accende e spegne i riflettori sui marginali e gli esclusi a caso, un giorno sì e cinque no, una testimonianza oggi e l’oblio quasi sempre, un’apparizione in tv a piccolo risarcimento dell’assenza destinata dal mercato economico e politico delle merci e delle idee. Mai la censura è stata così potente come nella società dei media che tutto dice e tutto fa vedere. Mai l’invisibile e l’indicibile di un’epoca sono stati così estesi come nell’epoca della massima visibilità e dicibilità: è questo il paradosso in cui ci troviamo a vivere, che rende insieme più possibile e più arduo decifrare il tempo presente. Non per questo possiamo desistere: è sbagliato cedere alle derive apocalittiche del discorso sui massmedia di cui è costellato il pensiero critico novecentesco; è sulla moltiplicazione, non sulla riduzione dell’informazione e della comunicazione che le strategie di resistenza devono comunque puntare. Significa, quanto alla comprensione del presente, che non dobbiamo mai cessare di interrogarci su quello che vediamo e su come ce lo fanno vedere e lo vediamo, ma anche su quello che non vediamo perché nessuno ce lo fa vedere. Su quello – sempre più – che è consentito dire, e su quello che non è consentito dire e resta censurato; e ancor più, su quello che non serve censurare perché proprio il regime della dicibilità di tutto rende tutto equivalente e privo di senso. Che cosa non abbiamo visto di un evento mediatico per eccellenza come l’11 settembre? Quali invisibili pratiche di sopravvivenza quotidiana rendono possibile la vita in quei lembi di terra  di cui vediamo solo immagini di morte e distruzione? Che cosa accade in questo momento in quel pianeta dimenticato dal dio televisivo che è il continente africano? Che cosa va perduto di ciascuna esperienza e di ciascuna differenza nel gigantesco dispositivo della traduzione linguistica che consente la comunicazione globale? Quante pratiche di resistenza al potere riesce a nascondere e a depotenziare il potere? Sono domande che dovremmo prendere l’abitudine di farci ogni volta che sfogliamo un giornale o guardiamo un tg. E la patinata impaginazione del presente che ogni mezz’ora viene approntata per ricondurlo forzosamente nelle compatibilità dell’ordine del discorso ci apparirebbe subito per com’è, piena di buchi e di strappi e di paradossi, altrettanti varchi in cui infilarsi per sovvertirlo o, quantomeno, ostacolarne l’onnipotente pretesa.

Il problema Majakovskij

Il problema Majakovskij

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. Si è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, “l’altra gamba corre ancora nella via accanto”. Ed ecco che “i tentativi di organizzare la vita personale assomigliano agli esperimenti per scaldare un gelato”.
Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di “uomini dello scorso millennio”. Avevamo soltanto canzoni affascinanti che ci parlavano del futuro, e d’un tratto queste canzoni da dinamica del presente si sono trasformate in fatto storico-letterario. Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola.

Roman Jacobson

“Una generazione che ha dissipato i suoi poeti – Il problema Majakovskij” è un libro di Roman Jacobson