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Categoria: Guerra e pace

Tremila (sinfonia dal nuovo mondo per il nuovo secolo)

Tremila (sinfonia dal nuovo mondo per il nuovo secolo)

l’Uomo dell’anno per il New York Times ha i connotati dei 3000 caduti di Iraqi Freedom : si chiamano Dustin,Down,Lee,Timoty Joseph… e tutti insieme configurano un solo volto .La foto è grave; multipla e interattiva : c’è la stringa da interrogare, oppure il mouse può percorrere, sfiorandola, l’immagine e rivelare l’identità del milite.Hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere,legate strette perchè sembrassero intere.I media americani sembrano essersi finalmente accorti della tragedia irachena.Tuttavia mentre al link Their stories dello stesso articolo troviamo il sergente Flanagan di anni ventidue, morto in un attentato,nulla è dato sapere dei morti iracheni sepolti nelle fosse comuni,il contrasto stride ma tant’è,questa è un’altra delle pietre miliari di George W.Bush,come l’esecuzione di Saddam Hussein la cui impiccagione sembrava così asettica nel (muto) filmato ufficiale e poi è bastato aggiungere il "sonoro" per scoprire che il gentile e pietoso pubblico che ha assistito all’esecuzione,nonchè i boia volontari e  incappucciati hanno insultato ripetutamente il condannato, con invocazioni e preghiere Scite,con inviti ad andarsene all’inferno e tanto per girare  il coltello nella piaga, fino all’ultimo istante hanno inneggiato al nome dell’acerrimo nemico, Moquada al Sadr.La leggenda narra che le ultime parole di Saddam siano state “I veri uomini non si comportano così..E come dargli torto? Dice Montesquieu nelle Considerations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur decadence che non c’è tirannia più crudele di quella perpetrata sotto lo scudo della Legge e in nome della Giustizia.Quanto a questo, George W. Bush che pretende di rappresentare le vittime irachene con i suoi giustizia è fatta, ha aggiunto pietre miliari in quantità ma l’esportazione della democrazia ha i suoi prezzi e dunque da Abu Ghraib a Guatanamo, passando per le invasioni di Stati Sovrani,dimostra che non c’è differenza tra le esecuzioni sommarie e i linciaggi e le condanne comminate da Corti Regolari in seguito a Regolari Processi, i quali in tutte le culture giuridiche del mondo, si celebrano proprio per sottrarre gl’imputati alle pulsioni incontrollate e alla vendetta della folla. Il nuovo secolo si apre con una sonora sconfitta della stessa idea di Giustizia e il ripristino della Barbarie impersonata dal ritorno in grande stile dell’occhio per occhio.Il mai più (guerre,pena di morte,processi senza garanzie) della fine della seconda guerra mondiale, è diventato carta straccia sotto ai tacchi di Iraqui Freedom.Un bell’esordio  per l’anno e il secolo a venire

Iraqi freedom

Iraqi freedom

L’anno si chiude con la botola che inghiotte Saddam Hussein ,con i tremila dead men walking appena inviati da Bush in Iraq,con la recente scoperta della prigione di Bassora  dove centinaia di uomini sono stati torturati ed assassinati  e con le parole del New York Times “la condanna a morte dell’uomo di Baghdad chiama in causa la nostra capacità di creare un mondo nuovo e migliore.Nè la destituzione di Hussein ne’ la sua esecuzione otterrà questo risultato.La questione importante era quella di accertare le responsabilità del dittatore con un processo condotto in modo accurato e scrupoloso mentre è stato di parte,politicizzato e viziato.Quello che poteva essere uno spartiacque è stata un’occasione perduta.Dopo quasi quattro anni infatti è arduo vedere cosa sia davvero cambiato in Iraq”

Si prevedono  bagni di sangue dopo l’esecuzione, come se  la pulizia etnica tra Sciiti e Sunniti non insanguinasse di giorno in giorno il paese scelto per risarcire l’11 settembre.La testa di Saddam non servirà ad invertire il corso delle vendette arbitrarie,non favorirà lo Stato di Diritto in Iraq.Inquinerà ancor di più,moltiplicherà l’odio come è già avvenuto con l’integralismo religioso.La sentenza di morte appare come una affrettata e formale cerimonia per mettere una volta per sempre una pietra sopra alla storia del regime di Saddam Hussein e alle connesse connivenze americane.

Perché quel regime non avrebbe mai prosperato senza il sostegno degli Stati uniti che all’epoca dei crimini contestati a Saddam – l’uccisione di 140 sciiti a Dujail, il massacro di migliaia di curdi – erano i primi alleati del rais di Baghdad.Infine, sul destino del corpo di Saddam si gioca la residua possibilità di pacificare l’Iraq disceso ormai in una guerra civile per la spartizione del paese che fa più di cento morti al giorno. Mentre gli sciiti esultano, i sunniti covano ulteriore rancore e ingrossano le fila degli insorti. Ed esulta Al Qaeda nemico giurato del regime secolare del rais. Ora che Saddam  è stato promosso al rango di martire, il solco scavato tra le anime del popolo iracheno sarà più profondo di una ferita mortale.

Se il fine giustifica i mezzi

Se il fine giustifica i mezzi

 

Il presidente palestinese Abu Mazen, con una mossa forse non del tutto  illecita sotto il profilo della costituzione approvata al tempo di Yasser Arafat ma certo molto poco rispettosa della volontà liberamente espressa dal popolo, vuole indire nuove elezioni con l’obiettivo dichiarato di scalzare dal potere Hamas. Non hanno tutti i torti i dirigenti di quel partito di gridare al golpe (ovviamente non di sparare colpi di mortaio sull’ufficio del presidente a Gaza).
La mossa di Abu Mazen corrisponde agli orientamenti (se non ai desideri e alle pressioni) degli attuali governi degli Usa e di Israele, di una parte dell’opinione pubblica e dell’establishment europeo  i quali ritengono che lo scontro in atto nella regione sia, fondamentalmente, uno scontro tra democratici per definizione filo-occidentali e non democratici per definizione anti-occidentali.Agli occhi di costoro  l’intenzione poco democratica di Abu Mazen ha la salvifica connotazione del fine che giustifica i mezzi. Se serve a far trionfare la “parte giusta”, anche su uno strappo alle regole della democrazia si possono chiudere gli occhi. È apparentemente la logica che fu dietro al consenso generale con cui, salvo pochissime eccezioni, fu accompagnato il colpo di stato che mise in mora il risultato che aveva premiato gli estremisti islamici del Fis nel ’91 in Algeria: piuttosto che vedere dei tagliagola al governo di un paese importante e con una classe dirigente di tradizioni laiche, meglio accettare come male minore una “provvisoria" sospensione della democrazia.
Ma a differenza di quanto avvenne con l’Algeria quindici anni fa, lo strappo non conterebbe su un consenso internazionale quasi unanime. Al contrario: una buona parte del mondo islamico lo considererebbe un atto di ostilità, la prevaricazione di una parte contro un’altra, degli epigoni di un regime corrotto sui difensori del popolo e, soprattutto, di una classe dirigente troppo propensa al compromesso “con il nemico” sui più intransigenti paladini dell’indipendenza palestinese. Date queste premesse, non è difficile immaginare con quanta virulenza la lotta si riaccenderebbe, tanto fra le fazioni a Gaza e in Cisgiordania, quanto tra i moderati palestinesi e i regimi, e le forze, dell’Islam più radicale.

Poiché Abu Mazen ha dimostrato di essere un politico molto accorto, è impensabile che non abbia calcolato la diversità con il caso algerino e i rischi di una ulteriore radicalizzazione dei contrasti, in Palestina e fuori. L’unica spiegazione è perciò che dietro la sua intenzione ci sia la speranza, se non la certezza, che Fatah possa vincere nelle urne contro Hamas. Presupposto di una simile convinzione è che i fondamentalisti siano divisi e profondamente indeboliti dal loro fallimento politico: la bancarotta dell’Anp, l’evidente delusione in quanti avevano creduto alle lusinghe di quella sorta di welfare d’ispirazione religiosa che Hamas prometteva e in qualche modo già praticava, l’isolamento internazionale.
Ma è fondato questo pregiudizio del presidente palestinese e dei vertici di Fatah? Molti dubbi sono leciti. Divisioni all’interno di Hamas certamente ci sono, e Abu Mazen cerca probabilmente di metterle a frutto. Ma l’isolamento del movimento è molto relativo. Inoltre, tutta la storia del Medio Oriente (e non solo) dimostra che nei processi di radicalizzazione sono proprio le componenti più radicali ad avvantaggiarsene fin dall’inizio a , a dispetto dell’approccio razionale ai problemi. L’approfondirsi delle divisioni all’interno del campo palestinese, così come del campo arabo e islamico in generale, non hanno mai avvicinato di un passo né la pace, né, più modestamente, un approccio più realistico e positivo al confronto. Per dirla in un altro modo, una guerra civile aperta e dura in campo palestinese indebolirebbe sicuramente l’Anp ma non rafforzerebbe certo Israele, né aiuterebbe gli occidentali che per esercitare la loro mediazione hanno bisogno di interlocutori anche ostili ma comunque il  il più possibile rappresentativi.
È una lezione, quest’ultima, che i dirigenti israeliani non sempre hanno mostrato di recepire giocando spesso sulle divisioni nel campo palestinese, e della quale dovrebbe essere capaci di tener conto anche gli americani e gli europei. Dove ha fallito l’esportazione della democrazia con le armi, sono destinati a fallire anche i distinguo nell’applicazione della democrazia formulati in base alla considerazione se i protagonisti siano “amici" o “nemici"

Nessuno tocchi Caino

Nessuno tocchi Caino

La pena di morte  è una punizione crudele, inumana e degradante ormai superata, abolita de jure o de facto da più della metà dei paesi nel mondo. La pena capitale è una violazione dei diritti umani fondamentali, che non può offrire alcun contributo costruttivo agli sforzi della società nella lotta contro la violenza.

Nessuno tocchi Caino vale sempre e sotto ogni cielo. Dunque, anche in Iraq. Dunque, anche se il condannato a morte si chiama Saddam Hussein, e se non c’è dubbio alcuno, perché lo ha riconosciuto lui stesso, che della strage di 148 sciiti a Dujail, nel 1982, è stato il mandante, così come di altre innumerevoli efferatezze contro il suo popolo della grande maggioranza delle quali il processo di Baghdad ha preferito non occuparsi.Saddam è stato processato e condannato per singoli episodi perché se il processo avesse avuto per oggetto il suo regime criminale sarebbe stato impossibile impedire all’imputato di difendersi invocando sia il contesto internazionale che le molte complicità di cui ha goduto nel corso della sua lunga carriera politica. Ricordando ai giudici, per esempio, i suoi incontri a Baghdad con Donald Rumsfeld, negli anni Ottanta. O la licenza di reprimere la rivolta sciita che ricevette da Bush padre dopo la fine della guerra del Golfo.Saddam, è il più colpevole degli imputati di sicuro ma il processo è risultato assai simile a una farsa, che scredita la giustizia irachena (e questo sarebbe onestamente il meno, in un paese in cui il capo del governo si è appellato in continuazione ai magistrati perché gli facilitassero il compito mandando a morte il despota deposto dagli americani) e rende più difficile la strada, già assai ardua, verso una giustizia internazionale degna di questo nome. È assai probabile, che le cose non potessero andare diversamente, una volta deciso di affidare il processo agli iracheni, per trasformarlo in una sorta di atto fondativo del nuovo regime. Ma questa non era una decisione obbligata: bastava volerlo, e Saddam avrebbe potuto benissimo essere giudicato, a l’Aja e forse persino a Baghdad, dal Tribunale Penale Internazionale: si sarebbe così evitata una condanna a morte che rischia di rendere ancora più incerta e drammatica la situazione in Iraq, e si sarebbero garantite al giudizio più trasparenza,più garanzie e soprattutto più verità. Peccato, che gli americani, il trattato istitutivo del TPI si siano rifiutati di ratificarlo e che, per quanto ne sappiamo, pochi, pochissimi hanno avuto il coraggio di sollevare apertamente la questione quando era il caso.La pena di morte a Saddam è un errore politico che aggraverà la situazione in Iraq.Per quanto i vertici americani si ostinino a negarlo, in quel paese è in atto una vera e propria insurrezione armata.Saddam diventerà un martire oltre ad essere giù considerato un eroe dell’antiamericanismo.L’odio per il gruppo dirigente iracheno e per gli americani aumenterà e i massacri si moltiplicheranno a dismisura.Per concludere in Iraq anche sul versante della giustizia si è imboccata una strada radicalmente sbagliata e appare assai probabile che la soluzione,sarà la peggiore posiibile.

Un infinito equivoco

Un infinito equivoco

Ritenendosi realizzatore del migliore dei mondi possibili e scopritore-inventore della formula costitutiva di un inscindibile insieme di libertà, verità, giustizia, ragione, tolleranza e ricerca della felicità, l’Occidente moderno non è praticamente disposto a tollerare in alcun modo “l’Altro da Sé”; esso non può accettare alcuna forma di civiltà che sia diversa dalla sua ma di pari dignità né ritenere possibile che possano esistere alternative (e, meno ancora, ch’esso possa essere in torto). Gli apologeti dell’Occidente, confondendo tra relativismo etico e relativismo antropologico, mostrano d’ignorare la grande lezione di Levi Strauss secondo la quale ciascuna civiltà va giudicata nel suo complesso e non c’è nulla di più improponibile di isolarne i singoli componenti per esaminarli alla luce di principî che non sono i suoi.
Ne consegue che l’Occidente moderno è affetto dall’infezione totalitaria espressa dal suo “pensiero unico” che lo conduce a concepire un unico modello di sviluppo per tutta l’umanità. Esso è, inoltre, vittima d’una schizofrenia irremissibile tra la tolleranza e i diritti dell’uomo, valori che ritiene fondanti della sua identità, venera a parole e sostiene di difendere, e il nucleo duro e profondo della sua realtà fondata sull’avere e sul fare anziché sull’essere: la Volontà di Potenza. La folle neoideologia dell'”esportazione della democrazia” proposta dal gruppo dei neoconservative ispiratori della politica del presidente Gorge W. Bush jr., il gruppo dei Wolfowitz, dei Perle, del Kagan, dei Rumsfeld, si fonda sulla vertigine di questa persuasione di eccellenza e di superiorità, sulla convinzione di un “destino manifesto” in grado e in diritto di estendere a tutto il mondo quel “cortile di casa” che, nella tesi isolazionista di Monroe (1823), si estendeva all’intero continente americano. Che poi questa sconfinata volontà di potenza, questa ineusaribile ricerca del benessere, della sicurezza della felicità, finisca in realtà col rendere chi cade in questo vortice eternamente insicuro, infelice e inappagato, è un altro discorso: ma nasce proprio da qui il rischio della “guerra infinita” nella quale i cantori del nuovo Occidente rischiano di trascinarci.
Ma, sul piano delle definizioni, siamo nel campo d’un infinito equivoco. L’Occidente sembra oggi una “cosa” reale, un termine chiaro che indica un soggetto preciso: quella “civiltà occidentale” che, secondo Huntington, corre il rischio di venire assalita da altre civiltà, compatte e ben delineate come la sua ma ad essa ostili. Peccato che si tratti soltanto, al contrario, di nomina nuda. “Occidente” non è una cosa, una realtà geostorica o geoculturale: è una parola equivoca, che ha subito nel tempo una serie di slittamenti semantici e il cui attuale significato è tanto recente quanto equivocamente e perversamente diverso da come lo intendono molti europei convinti che esso ed Europa siano quasi sinonimi.
Al di là dell’antica contrapposizione tra Asia ed Europa,la fusione dei valori “orientali” (asiatici) e di quelli “occidentali” (ellenici e poi romani) è passata attraverso le grande sintesi ellenistica, avviata da Alessandro Magno e perfezionata da Cesare.I termini “Oriente” e “Occidente”, nel mondo tardoantico e medievale, sono stati certo utilizzati: ma nella prospettiva del rapporto tra la pars Orientis e la pars Occidentis dell’impero romano uscito dalla spartizione imposta dal testamento di Teodosio, alla fine del IV secolo.
Nonostante quanto oggi si crede, l’uso corrente d’identificare la “nostra” con la “civiltà occidentale” è recente. Ancora ai primi del XX secolo, si parlava piuttosto d’Europa, della magia, del favoloso-irrazionale. La civiltà europea sentita da Hegel come “la grande sera” del giorno della civiltà umana è forse il punto d’arrivo del maturare di questa concezione.
Il mutamento importante che riguarda i nostri giorni ha radice però nella pubblicistica statunitense. E’ nel XIX secolo che scrittori e politici statunitensi guardano al loro continente e agli States come a quell’Occidente di libertà contrapposto al quale c’è un “Oriente” che gli europei non si aspetterebbero: l’Europa, appunto (del resto ineccepibilmente e obiettivamente a est dell’America), terra dell’autoritarismo, della tradizione, degli infiniti ceppi teologici e giuridici che imbrigliano la libertà.
Quest’identità statunitense di Occidente e libertà è tornata, dopo Yalta, a sostanziare di sé la nuova dicotomia del potere , distinta ormai fra un “Mondo libero” e un “Mondo socialista”: due mondi che appunto s’incontravano e confinavano nella Cortina di Ferro che tagliava in due l’Europa; e che convergevano nel far sparire il concetto stesso di Europa. La fine del tempo dell’equilibrio tra le due superpotenze (guerra fredda sì, ma anche spartizione e sotto molti aspetti complicità) ha condotto con chiarezza a una nuova situazione, definita appunto da Samuel P. Huntington: l’Occidente come cultura unitaria e compatta, ma caratterizzata dalla leadership della volontà politica e dei valori elaborati dagli Stati Uniti, cui la “vecchia Europa” è chiamata in molti modi a uniformarsi e rimproverata di non uniformarsi abbastanza. Dinanzi a questo nuovo “Occidente”, l’Europa – conforme del resto anche alla realtà geografica del globo dovrebbe forse rintracciare la sua vocazione di civiltà nata e cresciuta in stretto contatto con il mediterraneo, l’Asia e l’Africa, e alla luce di ciò rivendicare un ruolo di cerniera con gli “Orienti”. Essere occidentali ed essere europei non è più sinonimo.