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Anno: 2009

Dallo Shtelt al Minnesota il passo è (quasi) breve

Dallo Shtelt al Minnesota il passo è (quasi) breve

Comincia con una storiella finto yiddish ambientata in uno shtelt ottocentesco. Il  dibbuk – sorta di fantasma – scambiato per essere umano, diventa l’occasione di una diatriba tra coniugi. E  finisce con uno sbalorditivo avvertimento nei titoli di coda :

 Nessun ebreo è stato maltrattato durante la realizzazione di questo film.

Tra prologo ed epilogo, la riscrittura della storia di Giobbe, affascinante, iperbolica, triste – e assai saccheggiata da letteratura e cinema – metafora della condizione umana.

Una vicenda paradossale, bizzarra in cui s’ intrecciano;Torah, Jimi Hendrix, Bar Mizva, marijuana, traversie e Kaballà e che a tratti si perde – come è giusto che sia –  nei tradizionalmente fumosi ed irresistibili responsi dei diversi rabbi, interpellati a dirimere questioni, ovvero a mitigare i devastanti esiti della valanga di guai che travolge Larry Gopkink a serious men caparbiamente intenzionato, come ogni ebreo che si rispetti, a divenire mensch.

 Ma il Minnesota, patria dei Coen e di Larry,  è a distanze siderali da Manhattan e il versante surreale dello spirito ebraico, la raffinata ironia delle considerazioni filosofiche alle quali  ci ha abituato Woody Allen, facilmente sfuma nell’irriverenza di un humour nero che reca indelebile il marchio Coen.( e quello della commedia made in Israel, un cinema che purtroppo ci è dato di vedere raramente)

Siamo dunque ad un lavoro meno strombazzato di Burn after reading o di Non è un paese per vecchi, interpretato da attori bravi quanto sconosciuti. Ma non per questo meno efficace e divertente nella sua follia di mescolare menschenkeit e Jefferson Airplanes, Torah e Sidor Belarsky, di mettere in bocca ai rabbi i versi delle canzonette o di far apparire scritte in ebraico in luoghi inattesi. Oltre la rara capacità dei Coen di raccontare di sè e del proprio passato senza scivolare in operazioni nostalgiche, senza inciampare  in fastidiose radici che, particolarmente in questo caso, diventerebbero monumenti alla Noia Autoreferenziale.

A Serious Man è un film di Ethan Coen, Joel Coen del 2009, con Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Fred Melamed, Sari Lennick, Aaron Wolff, Jessica McManus, Peter Breitmayer, Brent Braunschweig, David Kang, Benjy Portnoe. Prodotto in USA. Durata: 105 minuti. Distribuito in Italia da Medusa

 

The color Purple ( No B – Day anch’io)

The color Purple ( No B – Day anch’io)

Ad andare mi ha convinto Bersani con le convergenze da stabilire prima e con i cappelli da metterci su. Avesse detto semplicemente che bisognava accordarsi o lasciare in pace i cittadini intenzionati a manifestare,mi sarei fermata a riflettere. Queste vecchie espressioni cominciano a sortire un effetto respingente. Bisognerà pur prendere atto dello sfinimento del militante di buona volontà al cospetto della solita zuppa.

Fino a quel momento solo qualche perplessità da definizioni mediatiche fastidiosamente ricorrenti, popolo di internet, dei bloggers, di facebook  – compagini nelle quali non mi riconosco per diversità di atteggiamenti mentali, stili di vita e linguaggi . Problema mio, beninteso  e per il fatto di scendere in piazza e chiedere le dimissioni del capo del governo, prerogativa che, a mio sommesso parere, rimane esclusiva del Parlamento e non della piazza.

Ciò detto e salvo qualche piccolo strafalcione, trovo lodevole la volontà degli organizzatori di dare vita ad una manifestazione spontanea – qualcuno malignamente direbbe spontaneista ma c’è in questo particolare tratto di alcuni movimenti un che di vitale e coraggioso che coinvolge e rafforza la voglia di partecipazione – e svincolata da qualsiasi convergenza, anticipata o postuma che dir si voglia.

Dunque non solo andrò perché mi sembra giusto dar voce al malessere ma perché trovo la parola d’ordine contro il berlusconismo e per una cultura della legalità e del rispetto, assolutamente condivisibile, nobile e degna di comparire nella migliore delle piazze.Tutto il resto dei pro e dei contro e dei distinguo di questi giorni, non voglio dire che sia noia ma quantomeno, al momento, non è importante.

 

 

In quale stato ( siamo)

In quale stato ( siamo)

 

Berlusconi elogia Lukashenko – una sorta di pezzo da museo, si potrebbe dire,  se non fosse vivo, verde e ancora in grado di combinare guai –  dopo aver incontrato nelle settimane precedenti l’amico Putin e  aver visitato il Turkmenistan e l’Arabia Saudita insieme a Tarak Ben Ammar. Di queste visite il cui denominatore comune sembra essere la legittimazione dei peggiori regimi dittatoriali, non è del tutto chiara la ragione, a meno di voler credere alle storie degli archivi del KGB o dei soggiorni in Italia dei ragazzini di Chernobyl. Ma, in assenza del premier, il dibattito nazionale è solitamente  concentrato altrove, vuoi sull’abolizione della pausa pranzo, vuoi  sull’ennesima trovata di Brunetta, vuoi sui motivi reconditi – mai nel merito – delle esternazioni di Fini.

Certo per uno che ha fatto dell’anticomunismo il tema forte delle sue campagne, è un bel salto l’apprezzamento del governo di Minsk. Come  lo sono, una volta rientrato a casa, le bacchettate alle riunioni di partito. Parole grosse, in qualche caso obsolete:  linea politica per esempio, si parla di chi ne è dentro e chi ne è fuori, nemmeno troppo velatamente, minacciando di espulsione questi ultimi. Con buona pace delle diverse anime e del partito plurale ed inclusivo. Appunto il partito delle libertà.

Ma essendo gli schemi saltati dal dì, nessuno fa caso alle mutazioni in atto. L’organizzazione di un partito, c’insegnavano, è lo specchio del tipo di governo che quello stesso partito vorrebbe realizzare. Non sono tra quelli che strillano con facilità alla dittatura o al regime ma i venticelli autoritari – anche l’ammirazione sperticata del Capo,  il consenso cieco, al limite della sottomissione, ne sono parte  –  che spirano intorno a qualsiasi,  iniziativa o dichiarazione  del partito al governo, risultano sempre più in armonia col progetto che, a ben vedere, non è semplicemente presidenzialista.

Prova ne è il nuovo –  che nuovo non è –  corso di Gianfranco Fini, uomo di destra seppur di una specie a cui non siamo abituati, il quale ribadisce da tempo che una repubblica presidenziale deve avvalersi di robusti contrappesi istituzionali di bilanciamento al potere del leader. Sottintendendo che per  un simile programma, qui da noi, bisognerebbe avere, oltre che il consenso, una volontà di rivoltare gli assetti, propedeutica ad una stagione di robuste riforme. Poi parla anche di rispetto per le istituzioni, ma questa è un’altra faccenda. Nell’un caso e nell’altro, non mi pare sia questa l’aria.

Essendo l ‘Ordinamento una specie di piramide in cui le norme al vertice producono i parametri per le sottostanti, il metodo invalso di piazzare rattoppi legislativi – in massima parte per contrastare le vicende giudiziarie del premier – può solo deteriorare situazioni già compromesse quando non incappare come pure è già successo nel rischio anticostituzionale.

La fretta di soccorrere problemi gravi ed urgentissimi – e qualcuno lo è davvero – non c’entra. Presi uno per uno questi provvedimenti, hanno il solo scopo di distruggere il nostro sistema di garanzie ed un unico leit motiv : fare carta straccia della separazione dei poteri e del principio di uguaglianza . Dalla separazione delle carriere, al processo breve passando per un tentativo strafalcione di ripristinare l’Immunità senza osservare i passaggi previsti. Ha ragione Fini a non riconoscere nella politica del governo i tratti della sbandierata, all’epoca della fondazione del PDL, cultura liberale.

Così, mentre restiamo in attesa di conoscere quale sarà la percentuale di processi che andrebbero al macero, se venisse approvata la nuova legge – dall’ uno del Guardasigilli al quaranta per cento dell’ANM e altri, non è una forbice, è la spaccata in aria di Margot Fontayn -, la settimana giudiziaria, giammai politica, del premier scorre tra la condanna al versamento di una fidejussione a garanzia dell’eventuale pagamento CIR, alla ripresa del processo Mills, all’attesa delle dichiarazioni in aula di un pentito di mafia.

Anche a voler considerare tutto ciò una persecuzione, dunque ammettendo come sacrosanto il diritto di difendersi dal processo, tutto gli sarebbe consentito fuori che di farsi le leggi ad hoc. Ma lui, a sorpresa,  sceglie d’intraprendere un ulteriore viaggio – mistero.

Panama, quella del canale e dei cappelli intrecciati con le foglie di  palma nana, è la suggestiva destinazione. Dato il calendario d’impegni che si lascia dietro, vedo remota l’ipotesi che si possa sentirne la mancanza. Ma siccome è l’ennesima boutade,  che buon pro gli faccia egualmente, ovunque si trovi.

 

Salsa Pedro

Salsa Pedro

 







Anche se non fosse – come dicono i patiti delle graduatorie –  il miglior Almodovar, avercene. E poi se i termini di paragone sono Parla con lei o Tutto su mia madre, superarsi non sarebbe impresa da poco nemmeno per uno come lui.

Maltrattato in patria dal maggior quotidiano nazionale  – presuntuoso noioso e vuoto – Los abrazos non è un film che ha il requisito dell’immediatezza. Presi, come ci si ritrova,  a sbrogliare una trama che dispiega personaggi – ciascuno col proprio doppio – su tripli piani temporali,  tra rimandi, ruoli, destini incrociati e citazioni, il piacere del film potrebbe sfumare.

In realtà,  a meno di essere integralisti della modalità narrativa A-B-C, nel tipo di struttura prescelta, risiede molto del fascino del film. Il resto è affidato ad una gran complicità artistica ed umana con Penelope Cruz, ad un utilizzo al meglio di ogni strumento a disposizione – musica, costumi, scene etc – e ad un gusto cinefilo smodato.

Il che rende amabile ogni fotogramma, vuoi per la presenza per niente discreta – e giustamente! – di Viaggio in Italia, vuoi per l’omaggio al Cinema e a chi , maestranze comprese, lo realizza. 

Ma non si tratta di citazioni tout court, piuttosto del mostrare senza reticenze quale peso abbiano avuto, registi come Malle, Hitchcock, De Palma, Tarantino, Godard, Demy, Antonioni, Allen, Minnelli nel suo cinema.

Storia di amour fou in cui la gelosia e la voglia mettersi  a (ri)fare cinema giocano un ruolo chiave.Tradizionale melodramma noir, cucinato in struggente salsa Pedro.

Gli abbracci spezzati è un film di Pedro Almodóvar del 2009, con Penelope Cruz, Lluís Homar, Blanca Portillo, José Luis Gómez, Tamar Novas, Rubén Ochandiano, Rossy de Palma, Ángela Molina, Carlos Leal, Carmen Machi. Prodotto in Spagna. Durata: 129 minuti. Distribuito in Italia da Warner Bros.

 

 

Solo il tramonto

Solo il tramonto

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Preceduto da polemiche e intimidazioni tali da indurre una Produzione evidentemente sfiancata, a  rinunziare al finanziamento pubblico, arriva infine nelle sale La Prima Linea, film non apologetico, come in molti si sono già affrettati a scrivere – ma che s’aspettavano? La celebrazione della pistola alla cintola ? –  ma soprattutto, altra litania ricorrente e del tutto trasversale, al quale manca ora questo, ora quello : la definizione dei contesti, le cause scatenanti, l’analisi sociopsicopolitica e chi più ne ha più ne metta.

Vero è che il rapporto tra cinema e terrorismi è lungo e sofferto e che infinite sono le angolature utilizzate per raccontare la storia della violenza politica degli anni cosidetti di piombo. Rimarcando la profonda differenza tra film e volume di storia, ovvero tra film e documentario in venti puntate, stile Rai Educational , trovo naturale che sia così. Anzi direi che alle volte il fatto che manchi qualcosa o che ad altre semplicemente si alluda, non appartenga necessariamente ad una tendenza omissiva ma che spesso allontani il rischio del didascalico, sempre in agguato quando si tratta di rivoluzioni vere o presunte.

I film che funzionano non fanno ragionamenti profondi, piuttosto li inducono. Non danno risposte, le sollecitano. Con tutto il rispetto per i parenti delle vittime e un po’ meno per gli attivisti  ministeriali della censura, il Cinema dovrebbe essere altro. E in quest’altro un ruolo preponderante occupa la possibilità,  o meglio lo spazio, dato  agli spettatori di guardare oltre lo schermo e, se del caso, di giudicare.

 E’ anche vero che il panorama complessivo dei film di questo genere, a parte rare eccezioni, è dominato da una sorta d’imbarazzo, ovvero da una volontà ossessiva di prendere le distanze che tutto finisce col distorcere.

In tal  senso il cinema è la spia migliore di come con l’intera vicenda del terrorismo, qui da noi, come altrove, non si siano mai fatti i conti fino in fondo. Liquidando frettolosamente la questione in termini di condanna, la si è sottratta ad una sincera analisi, stavolta sì, delle motivazioni profonde del fenomeno.

Prova ne sono le resistenze che progetti simili incontrano, particolarmente se messi in piedi sulla scorta di libri o testimonianze dei protagonisti.

Di cosa si ha paura? Qualcuno forse della inequivocabile – ovunque in Europa – matrice antimperialista, altri di sentir parlare di repressione e violenza di Stato?

Sbaglierò, ma tutta la fatica dell’Italia di cimentarsi con la tragicità, la complessità e le contraddizioni del terrorismo italiano che Benedetta Tobagi citava ieri in un articolo su Repubblica, io non l’ho avvertita.

Come, pur condividendo il suo parere sul cinema tedesco, tanto più evoluto del nostro,in materia – con l’eccezione di Buongiorno notte – non a La Banda Baader Meinhoff – prodotto dignitoso ma dal taglio commerciale in cui, a ben vedere, le lacune sono voragini – rivolgerei l’attenzione, ma a capolavori quali Germania in Autunno, lì in effetti il passo decisamente cambia.

Certo è che in Germania mai si sognerebbero di condizionare il finanziamento pubblico al gradimento post visione del ministro, ovvero alle correzioni apportate dai parenti delle vittime.

Ciò detto, La prima Linea è un film che sceglie le  esperienze personali e quotidiane di un gruppo di terroristi – una sorta di storia della lotta armata vista da dentro – come partenza e filo conduttore, per poi sviluppare attraverso  vari piani temporali, il racconto di alcuni fatti di cronaca emblematici.

In questo procedere avanti e indietro della narrazione è possibile intravedere le motivazioni di una scelta politica ed esistenziale che, evento dopo evento, errore dopo errore, sospinge i protagonisti in un vicolo cieco.

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La struttura è piuttosto semplice e il percorso individuale assai comune in queste storie, dunque ho trovato il film assai credibile oltre che veritiero, incluso il fastidio che possono suscitare personaggi nevrotici e in perenne stato di concitazione, sovrastati da un senso di fallimento e di sconfitta che condiziona ogni loro gesto . Per chi non lo sapesse, le cose, almeno da quel punto di vista, stavano esattamente così.

Ovvio dunque che nel tentativo, peraltro abbastanza riuscito, di esplorare la vicenda da un certo punto di vista, ponendosi gli sceneggiatori ed il regista, il problema del racconto alla giusta distanza, a qualcuno poi manchi la poesia, ad altri il sogno, ad altri ancora l’individuazione precisa del nemico da abbattere o l’ enumerazione cronologica di tutti gli eventi. Come se si trattasse di questo…

Sceneggiatura coerente, Mezzogiorno e Scamarcio perfetti nel ruolo di chi scambia l’alba con il tramonto, slogan promozionale ad effetto che solo in parte definisce il film.

La prima linea è un film di Renato De Maria del 2009, con Giovanna Mezzogiorno, Riccardo Scamarcio, Liam Riccardo, Daniela Tusa, Awa Ly, Fabrizio Rongione, Lucia Mascino, Jacopo Maria Bicocchi. Prodotto in Italia. Durata: 96 minuti. Distribuito in Italia da Lucky Red