…e non si sa se questo sia un bene o un male, essendosi tirata dietro, nel suo risorgimento dalle acque, anche il consorte, incapace oramai di presenziare a qualsiasi evento senza illustrare i capisaldi della sua celebrata Mistica : Uno : (trapianti d’organi a parte), molte vite umane potrebbero essere salvate. Se ci fosse più sorveglianza da parte dei datori di lavoro e meno pigrizia negli operai.
Due : siamo vittime della degenerazione di governo e opposizione.
Tre : No al parcheggio sotterraneo del Pincio. Meglio il mare di lamiera che in superficie valorizza i monumenti, allieta l’esistenza dei cittadini romani, residenti e non, impedendo all’area di essere infine pedonalizzata ( io a Celentano farei fare una promenade mentre spinge un passeggino gemellare tra marciapiedi microscopici, macchine parcheggiate e vicoli ..so beautiful ).
Nonostante tutto ciò, siamo lieti che Yuppi du, non un capolavoro della cinematografia, ma egualmente interessante nel panorama scarno, se non inesistente, dei musical italiani, sia stato restaurato e se ne sia realizzato un dvd da porre in commercio per la gioia degli estimatori . Ognuno pensa al proprio tornaconto è un altro caposaldo della Mistica di cui sopra. E per una volta almeno, siamo d’accordo.
Ma veniamo al dunque :
Sull’ Avenida Paulista a San Paolo del Brasile, due amici s’incontrano, tentano una conversazione che però è continuamente interrotta dai trilli dei rispettivi telefonini. Così decidono che l’unico modo per avere uno scambio reale è telefonarsi a loro volta. Parleranno di etica, di vita, di amicizia, incuranti del traffico e del via vai di persone che li circonda. Comincia così Venezia 2008, con questo corto emblematicamente titolato Do visivel ao invisivel , del centenario maestro ( ma che spirito, che tocco e che verve..) Manoel De Oliveira. Metafora della attuale difficoltà a comunicare se non attraverso mezzi ma anche la sintesi di quel che cerchiamo nel cinema : il racconto di ciò che ( ancora) non si vede.
Elaborato il tragitto di questa Mostra e, per sovrapprezzo, attraversato da polemiche spesso ridicolmente gonfiate da una copertura mediatica che, in quanto spropositata, bada sempre meno ai contenuti, offrendo più rilievo alla marginalità.
Marginalità data non solo dai muri del pianto di Ippoliti o dagli abbigliamenti informali di certi critici o dal menù servito per colazione a Brad Pitt ma anche dalle dispute blockbuster – cinefilia ( Più Risi meno Antonioni si è dovuto leggere in un editoriale di cui francamente non si sentiva la necessità) ovvero dalla imperdibile polemica se sia o meno servita la contestazione
Come se tenersi un regolamento di epoca fascista che consentiva ai governi esteri, tramite le loro ambasciate, di avere pesante voce in capitolo ( vedi alla voce censura) nella selezione internazionale, potesse giovare all’Arte.
Tuttavia – e questo è vero – le presenze sono calate, colpa della crisi economica ( di cui poco si parla ) più che del programma definito (a torto ) anemico e del fatto che se Venezia è una città costosa per le Major hollywoodiane, come pure precisato da Variety in apposito articolo, figuriamoci per i ragazzini con lo zaino in spalla e i di loro parenti.
Ciò detto, Müller, a mio sommesso parere, ha allestito una mostra significativa dell’attuale offerta cinematografica di qualità nel pianeta, compiendo slalom tra i diktat di Toronto, lo sciopero degli sceneggiatori che ha ovviamente avuto ricadute sui tempi di lavorazione e consegna , la censura cinese che sdogana solo film in cui tutto va bene e chissà quale altra diavoleria o capriccio del settore.
E’ giusto che una mostra sia la più variegata – o schizofrenica, fa lo stesso – internazionale, eclettica, sperimentale, possibile, che offra una panoramica sui generi, senza ridicole – in epoca di ibridazione, poi.. – pretese gerarchiche, che offra al pubblico la possibilità dell’incontro – che diventa sempre più scontro – con la realtà, con il lirismo, con l’immaginario. Sotto questo aspetto il talento esplorativo – nonostante la riconferma che avrebbe suggerito in chiunque, un minimo di surplace – della catena di comando Müller and co ha dato i suoi risultati.
Sognando un’altra Cannes, la Mostra ha schierato in concorso ben quattro film italiani. Scelta giustificata date le affermazioni primaverili da mettere a profitto che però non ha sortito l’effetto sperato, ne’ si può considerare la coppa Volpi a Silvio Orlando un risultato soddisfacente.
L’impeccabile, quanto a gusti, Wim Wenders, lo ha pur spiegato : peccato che il regolamento impedisca di premiare il miglior attore se il film in cui recita è stato già insignitondel Leone d’oro.
Come dire : avremmo premiato più volentieri Rourke – notevolissimo peraltro nell’ interpretazione del wrestler Randy “The Ram” Robinson.
Non che i nostri film fossero brutti , intendiamoci, ma le grandi aspettative della vigilia e soprattutto il confronto – in alcuni casi umiliante – con la cinematografia di altri paesi, hanno orientato le scelte dei giurati su opere di differente spessore.
Poco male. Ne’ per questo sembra giustificata la recita dei requiem – dopo l’alleluja di Cannes sarebbe in ogni caso troppo tempestiva – già avviata dai giornali in salvezza dell’anima del defunto cinema italiano.
In definitiva : Opzetek ha sperimentato ( ben venga, a prescindere) un differente registro rispetto al consueto e anche se il suo film ha un che di incompiuto ( bravi gli attori, toccante la storia ma..) è già a Toronto e sarà al Moma di New York in autunno con una retrospettiva.
Corsicato è tornato tra noi con un film innovativo, vivace, che riesce finanche ad alleggerire il gravoso testo di Von Kleist già trasposto da Rohmer anni fa, e anche se il richiamo ad Almodovar è pura invenzione ( ah la critica, oramai è diventata un coretto ben intonato ) ha messo in circolazione un’opera dignitosa e di discreta qualità.
E’ possibile dunque che il pubblico riservi a questi film un trattamento differente, pareggiando così i conti con il giudizio non sempre generoso degli addetti.
Ma il punto non è questo, la difficoltà del nostro cinema, probabilmente risiede nella cifra narrativa, troppo chiusa in ambiti angusti, di coppia, familiari, privati, troppo incentrata sulla psicologia dei personaggi, laddove il massimo della contestualizzazione è dato da una lei che lavora in un call center.
Anche Jerichow di Christian Petzold è la storia di un triangolo classico, anche Nuit de chien di Werner Schroeter, ruota su di un ossessione amorosa, anche Rachel getting married di Demme racconta del ritorno a casa di una problem child la cui presenza mette in moto nella sua famiglia, dinamiche infami .
Ma intorno ad ognuna di queste storie si muovono universi interi dei quali la narrazione puntualmente si appropria e che ci restituisce, non meno indispensabili delle singole vicende
Sono lì. Non vengono lasciati fuori della porta di casa. Persino Calopresti ci ha raccontato di aver costruito il suo documentario sulla Thyssen ( ahimè brutto ) sul dolore, un sentimento privato che per diventare collettivo e quindi motore di cambiamento, abbisogna di un’ impalcatura robusta : la presa di coscienza.
Ma quanto del necessario senso civile viene sottratto allo scopo principale : informare allineando i fatti. Che, soprattutto in questo caso, sono un cazzotto nello stomaco e annichiliscono assai più di qualunque altro racconto. Torneremo a riparlarne.
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