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Categoria: La fabbrica del cinema

Bigger than life

Bigger than life

C’è un’ispirazione di fondo – Io la conoscevo bene – un film nel film La moglie del prete – c’è, al solito, Livorno e una famiglia disfunzionale, come la si sarebbe definita qualche anno dopo.

Tuttavia, all’epoca dei fatti, un marito geloso  che mette fuori della porta di casa una moglie – e madre –  esuberante e un po’ fuori dalle righe, non avrebbe suscitato  particolari sospetti, tantomeno provocato riprovazione sociale, appannaggio esclusivo della donna, vitale, affettuosa ma  irrimediabilmente considerata una poco di buono. E l’epoca è quella definita dalla canzone – titolo del film, un brano-tormentone sopravvissuto ben oltre l’edizione di Sanremo che, forse a torto, non l’aveva incoronato vincitore.

Dunque da una madre così imbarazzante si può solo fuggire. I figli si sa, soprattutto se maschi, nutrono istinti conservatori e se la mamma non somiglia nemmeno lontanamente a quella del libro di scuola ma è giovane, carina, ansiosa di vita  e viene pure eletta miss spiaggia, ne soffrono al punto di massacrarsi l’esistenza per il resto dei loro giorni.

Sulla falsariga del tornando a casa assai caro ai cineasti italiani nell’ultimo periodo, inevitabilmente s’inciampa nei  ricordi e nella nostalgia, materia cinematograficamente delicata, da maneggiare con il massimo della cura onde evitare commistioni con il patetico rimpianto del bel tempo che fu.

Virzì che riesce perfettamente nell’impresa di raccontare l’ infelicità con mano leggera , realizza anche in questo caso  il suo bel cinema Bigger than life. Cambia luci col cambiare delle epoche, convoca costumiste eccellenti, pluridecorate e filologicamente meticolose, attrici di culto, gli abitanti della sua città a far da comparse, riprende con puntualità luoghi e stabilimenti balneari d’epoca e via dicendo.

Qualcuno trova che sia un po’ troppo questo riempire ogni film di oggetti e riferimenti per rendere più credibile la ricostruzione, ma in questo caso il doppio piano temporale attraverso il quale si dipana il racconto è  del tutto privo – ed è una scelta –  dell’elemento politico sociale .Sono i conflitti famigliari al centro della vicenda, non c’è ombra di anni di piombo, ne’ di ere democristiane o berlusconiane in questo film che vuol essere una commedia dei sentimenti senza sentimentalismi di sorta. E anche nel ritrovarsi come punto di ripartenza, non c’è sbavatura o rimorso, l’unico elemento nostalgico in cui ci si può ritrovare è nella vitalità e nella speranza di un tal momento storico.Quelle sì abbiamo smarrito.E ci mancano tanto.

Attori diretti con amore. E si vede.


La prima cosa bella è un film di Paolo Virzì del 2009, con Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Stefania Sandrelli, Claudia Pandolfi, Marco Messeri, Aurora Frasca, Giacomo Bibbiani, Giulia Burgalassi, Francesco Rapalino, Isabella Cecchi. Prodotto in Italia. Durata: 116 minuti. Distribuito in Italia da Medusa

Junk food

Junk food


Soul Kitchen come la canzone dei Doors – ma i diritti costavano un botto e non è nella bella colonna sonora –  o  il locale di Wilhelmsburg, quartiere della movimentatissima Amburgo, dove si servono  junk food e  pazzesche compilation in cui   l’ hip hop riesce a stare insieme col funky, il  rithm & blues e il rebetiko.

Dunque  Zinos, proprietario e chef che naviga in un mare di guai, tra fidanzate snob in fuga verso la Cina, fratelli che escono di galera, inquilini che non pagano l’affitto, i soliti speculatori alle costole  e un gran mal di schiena che da coronamento alle disgrazie, diventa magnifica opportunità sulla via di un happy end travolgente e  non banale.

Heimat Film, avverte Fatih  Akin, regista della Sposa turca e di altre documentaristiche meraviglie, ovvero un modo di essere patria & comunità assai poco teutonico e forse più melting pot .Del resto in Akin la passione per la miscellanea diventa cifra artistica di alto rango. Così nel pentolone vanno a finire un po’ di Wilder di Keaton e persino di Hill & Spencer, il risultato è tuttavia personalissimo.E pazienza se nel girare sono emersi un po’ di ruffianeria e una buona dose di calcolo .Poichè tutto funziona, di che lamentarsi ?

Commedia divertente e trasgressiva. E dico poco. Nel senso che Soul kitchen non si limita a far sorridere ma  ha il pregio di mettere addosso una grande allegria.

Particolarmente apprezzata alla Mostra di Venezia – dove si è aggiudicata il Premio della giuria – e per aver spezzato il ritmo vagamente quaresimale delle pur splendide visioni. Ma nel cartellone delle mostre internazionali, si sa, la joie de vivre, difficilmente è di casa.

Soul Kitchen è un film di Fatih Akin del 2009, con Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Anna Bederke, Pheline Roggan, Lukas Gregorowicz, Dorka Gryllus, Wotan Wilke Möhring, Demir Gökgöl, Catrin Striebeck. Prodotto in Germania. Durata: 99 minuti. Distribuito in Italia da Bim

L’arrivée d’un train à La Ciotat ( lustrando gli occhialetti)

L’arrivée d’un train à La Ciotat ( lustrando gli occhialetti)

 

Che futuro s’intravede per il cinema ai tempi dell’utilizzo diffuso di trucchi e tecnologie estreme, credo, non sia dato sapere. Un po’ per la stessa natura inafferrabile dell’Oggetto che, partito come invenzione senza futuro, a detta dei suoi stessi inventori , è arrivato fino a noi –  oltre un secolo dopo cioè –  con un bagaglio di Opere d’Arte da far spavento,  vivo,  verde  e tutt’ora  in grado di far discutere ed emozionare.

 

Ma di una cosa si può essere certi : anche l’uso più spregiudicato dell’ hi-tech, non precluderà alcuna possibilità all’ Uomo e alle sue vicissitudini, di essere al centro di un racconto d’immagini e di parole.

 

Il computer è un mezzo,  non neutro d’accordo, come non lo è la macchina da presa o non lo fu  la lanterna magica ma  che non dimostra particolare predilezione per un soggetto piuttosto che per un altro.

 

Da Abel Gance a Kubrik passando per Lucas, Ridley Scott ed altri, è la sperimentazione di nuovi artifici che ha contribuito a tenere in vita la Macchina delle Meraviglie, obbedendo, in questo, ad un criterio – seppur differentemente declinato –  per il quale tutto deve concorrere ad un unico scopo : stupire.

 

Preceduto da potenti mezzi da sbarco, tipicamente made in USA e da un bel libro sulla realizzazione del film, sta per arrivare nelle sale italiane Avatar, che nessuno ha ancora visto ma su cui ognuno si è già formato un’opinione.

 

Certo, oltre un miliardo di dollari d’incasso in America durante il primo week end di programmazione, milioni di spettatori in perfetto silenzio durante la proiezione  che tributano applausi scroscianti sul far dei titoli di coda, impensieriscono. Come pure il racconto del set meta di illustri pellegrinaggi, Sodebergh, Lucas, Spielberg, che con  gran dispiego di superlativi e definizioni ultimative esprimono sconfinata ammirazione il   più grande film in 3D mai realizzato o il progetto destinato a cambiare il cinema.

 

Voltare le spalle alla tecnologia o agli artifici significa negare che il cinema anche di questo si nutre. E lo fa da sempre. Come pure la condanna tout court dell’effetto speciale acchiappa – spettatori, non pare del tutto lecita se si pensa alla ruffianeria e agli effettacci che certi film cosidetti tradizionali, per il tramite di inquadrature, montaggi, musica e sceneggiature dall’apparenza innocua, realizzano.

 

Essere o meno proiettati dentro una storia è un problema di Talento non di tecnologie utilizzate.Per quanto mi riguarda aspetto la visione. Ovviamente lustrando gli occhialetti.

 

Chi ben comincia…( tanti auguri al cinema italiano )

Chi ben comincia…( tanti auguri al cinema italiano )

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Tanti auguri al cinema italiano, che riesca a liberarsi di querelles oziose, di battibecchi stucchevoli, di polemiche provinciali  su chi riempie le sale col nazionalpopolare e chi le svuota con i film raffinati, su chi è premiato ai festival  ma fa crollare il box office, mentre quelli snobbati alle mostre internazionali con i loro mirabolanti incassi  mantengono l’intero sistema.
E via di seguito, tra commissioni ministeriali che conferiscono fondi a chi già ne ha, autori che perdono la vita in cerca di finanziamenti, disinformazione e paccottiglia di ogni genere.
Manco non avessimo fatto tutti, nella nostra vita, indigestioni a non finire di cinema americano, laddove, tra le altre cose,  si dimostra che per portare gli spettatori in sala non serve abbassare il livello, ma raccontare storie con accuratezza, coerenza e professionalità.

L’anno dunque comincia con Carlo Verdone perfetto esempio di cinema intelligente, popolare, di successo  e con il suo – storico, per la verità – desiderio, in barba  alle numerose conferme, di reinventarsi.
Ma soprattutto con quanto  sia difficile raccontare con il linguaggio  tradizionale della commedia, la società in cui viviamo.

Che ci vuole, si dirà, basta una storia di corna, due belle figliole, ammiccamenti d’attore, qualche parolaccia, una location esotica e il gioco è fatto.
Ma a ben vedere, anzi a leggere le cronache italiane allineando i fatti uno ad uno, i film del filone natalizio – vacanziero, d’evasione, finiscono con l’essere poco credibili come specchio dell’attuale società – espressione cara a chi quel cinema realizza o interpreta Nel senso che gli eventi e i personaggi hanno oramai di gran lunga superato anche la più iperbolica delle rappresentazioni. Inservibili come misura dello stato delle cose, valgono per quel che sono: innocui giocattoli usa e getta, divertenti, se uno ci si diverte.

Probabilmente è per quella difficoltà ovvero per scantonare il rischio stereotipizzante che la scelta di Verdone è caduta su di una storia ed un protagonista atipici ( anche Virzì e Soldini, in uscita nelle prossime settimane, hanno praticato analoghe deviazioni dall’abituale percorso).E su un filo conduttore, quello di chi dopo un periodo di allontanamento, ritrova il proprio mondo a soqquadro, non nuovo – come pure non lo è l’elemento destabilizzante Lara che riesce nel caos a ricondurre le cose ad un senso –  tuttavia affrontato con tocco lieve e privo di qualsiasi intento moralistico.Uno sguardo realmente esterno e quindi distante che diventa un prezioso tramite per lo spettatore.

Una grande prova d’attore – più è misurato, più coinvolge o diverte – e di regista oramai alla soglia dei trent’anni di carriera, quindi maturo (e pronto per il suo capolavoro).
Cast diretto con perizia e al meglio. Distributore con possibilità di lancio internazionale. Che pienamente merita.

Ebenezer!!

Ebenezer!!

Delle cinquanta versioni televisive, più una ventina  per il cinema, questa è la più rivoluzionaria. Ma  – curiosamente – anche la più fedele a Dickens. Testo, spirito, ambientazione.
Nel corso del tempo, lo Scrooge più stilè  – e dunque poco credibile – fu  quello  interpretato da Michael  Caine. Meraviglioso egualmente, a patto di non pensare a Ebenezer.
Il più impeccabile,  zio Paperone
, perfettamente a suo agio  nel ruolo  del perfido usuraio, ovviamente affiancato dagli abitanti dell’intera Topolinia, ciascuno a vestire i panni più congeniali al proprio abituale personaggio . Mentre il palmares per la lettura più trucida del racconto, va senz’altro a Barbie che ha prestato il suo universo plastificato per l’immortale Barbie in a Christmas Carol .Ma c’è modo e modo di ritagliarsi un posto d’onore a Cartoonia e questo di prendere attori veri, far infilare loro una tuta sintetica, dopo averli cosparsi di sensori, passerà alla storia. Cartoonizzati gl’interpreti, eliminato materialmente il set, non restano  che il disegno di una prodigiosa scenografia e la recitazione esaltata da una macchina da presa inesorabile nel catturare l’espressione fin nelle pieghe più segrete. Si può immaginare cosa succede tra cinepresa e attore se questi è Jim Carrey trasformista, mobilissimo e più indiavolato che mai.Un vero Ebenezer. Tanto paradossale e fuori dalle righe da mettere, a tratti,  in crisi la macchina , rivelando qualche magagna in una nuova tecnica che  probabilmente  ha ancora bisogno di essere affinata Zemeckis dunque mette in piedi un racconto gotico in cui Scrooge e i tre fantasmi sono interpretati, come è giusto, da un unico attore. Del resto un tragitto  di civile redenzione com’è nel Canto di Natale,  non può prescindere dai Mostri incalzanti di Passato e Presente che invariabilmente suggeriscono una visione drammatica del Futuro.
Per bambini abituati a disimpegnarsi con le differenze tra finzione e realtà, diversamente  l’elemento orrorifico, potenziato dal 3D, prevale con la sensazione di essere al centro dell’ incubo.
E poi per  tutti gli altri perché ,sia ben chiaro,
Ebenezer – Chiuso controllato e solitario come un ‘ostrica siamo noi e l’universo di ingiustizia che lo circonda, cambiati alcuni dettagli, è ancora il nostro. Con differenti mostruosità e sempre meno speranza rispetto a Dickens.
A Christmas Carol è un film di Robert Zemeckis del 2009, con Jim Carrey, Gary Oldman, Robin Wright Penn, Colin Firth, Cary Elwes, Bob Hoskins, Daryl Sabara, Sammi Hanratty, Fay Masterson, Molly C. Quinn. Prodotto in USA. Durata: 96 minuti. Disponibile in formato 3D. Distribuito in Italia da Walt Disney Studios Motion Pictures Italia