Principessa per l’eternità
(Rest easy, Carrie)
(Rest easy, Carrie)
Lungomare di Recife sfigurato da una speculazione edilizia invasiva, un palazzetto azzurro elegante e un po’ fané circondato da una selva di brutti grattacieli resiste grazie alla caparbia determinazione dell’unica inquilina rimasta. L’assedio cui è sottoposta Clara ha le fattezze di cospicui assegni dell’Immobiliare che vorrebbe rimpiazzare la piccola costruzione chiamata Aquarius con il solito mostro a non so quanti piani ma anche di amici, parenti, figli che insistono perché accetti l’offerta.
Ma qui non si tratta di quattrini, quella casa luminosa con vista sull’oceano custodisce memorie e oggetti di un passato e di un presente che rappresentano la sua Storia. E a quella proprio non può rinunciare.
Meraviglioso elogio dell’età forte vissuta rivendicando per sé ogni diritto e della capacità di non arrendersi, di non lasciarsi – che siano malattie terribili , lutti, o speculatori – travolgere dagli eventi. Il regista Kieber Mendoça Filho traccia il ritratto affettuoso e dettagliato di una donna matura che non rifiuta la modernità ma che non scende a patti con tutto ciò che ha portato il mondo all’attuale rovina.
Cannes 2016 : Sonia Braga si avvia verso la proiezione di Aquarius volteggiando sul red carpet, la sua stola di voile rosso come l’abito compie mille volute simulando un incendio. Extrasistole a grappoli dei presenti folgorati dall’ attrice ultrassessantenne che se ne infischia del tempo. E’ lei Clara. Che non avrebbe potuto trovare interprete più appassionata.
Come se non bastasse il falò, sulla montée l’intero cast di Aquarius inscena la protesta contro l’impeachment della presidentessa Dilma Roussef con cartelli che denunciano di fronte alla stampa internazionale il tentativo di golpe.
In patria il film non sarà gradito al ministro della cultura Marcelo Calero che definirà quelle proteste puerili. Ma …
Le Monde di qualche giorno fa riferisce la notizia di dimissioni rese dallo stesso Calero che ha confessato di non poterne più delle pressioni di un esponente importante del governo intenzionato a lasciar costruire un grosso complesso immobiliare a Salvador de Bahia.
Ironia della sorte e una minuscola soddisfazione per Clara- Sonia e per tutta la troupe
Aquarius è un film di Kleber Mendonça Filho. con Sonia Braga, Maeve Jinkings, Irandhir Santos, Humberto Carrão, Fernando Teixeira Drammatico, durata 140 min. – Brasile 2016. – Teodora Film
…e cioè dalla Palma 2016 vinta a fronte di un cartellone ricco di ragguardevoli presenze da Ken Loach che amiamo e non solo per devozione alla Causa. Perché come dice lui un altro mondo è necessario e il suo essere ex nuovo cinema inglese, il suo fare film de sinistra buoni anche per spettatori de destra, il suo appassionato esaltare il popolo contro i potenti pone in second’ordine la rinuncia ad una narrazione sofisticata, complessa magari pure un tantino criptica. Come si conviene ad ogni autentico prodotto da festival.
Parte dei mugugni che hanno accompagnato questo premio 2016 – che comunque nessuno ha avuto il coraggio di definire immeritato – era proprio dovuta al racconto piano – non piatto – e forse prevedibile del rapporto di solidarietà tra un anziano carpentiere e una madre nubile, disoccupati ed entrambi privi di mezzi per poter far fronte all’indigenza e alla pesantezza degli ingranaggi burocratici che presiedono quel che resta di un welfare sopravvissuto a tagli, privatizzazioni e crisi.
Ecco. Quando si ha qualcosa di importante da mostrare è necessario che il racconto proceda con naturalezza : la materia, complicata di per sé, non ha bisogno di ulteriori artifici.
I Daniel Blake è uscito ad ottobre ed è tutt’ora nelle sale. Ma cos’ha di tanto speciale questa storia da indurre più di un commentatore a riannodarne i fili con quanto sta accadendo nel mondo?
Intanto i protagonisti : vivi e veri giustamente arrabbiati ma non inclini a trasformare il risentimento in generico intento punitivo verso non meglio identificati poteri forti o classi dirigenti o élite. Loach – generoso di spiegazioni ai margini della proiezione di Cannes, in conferenza stampa e persino nel discorso di premiazione – individua con precisione i soggetti in campo, le responsabilità e, senza avere la pretesa di farsi portavoce di un (altrettanto non meglio identificato) popolo, suggerisce possibili vie d’uscita per esempio chiedendo alla sinistra di fare la sinistra recuperando i propri valori peculiari, uno tra tutti la Solidarietà.
Sembra poco. Sembra romantico, sembra sentimentale, sembra retorico e, in epoca di cinismo spacciato per senso della realtà e di irrisione per ironia, sembra anacronistico. Soprattutto se lo vai a raccontare a quelli che stanno relegando il significato del termine Solidarietà nel calderone del politicamente corretto,indispensabile supporto culturale tornato in grande spolvero ad accompagnare – come ti sbagli – i recenti successi elettorali della peggiore destra, ovvero per fornire avalli a vaneggiamenti di muri, espulsioni e respingimenti a vario titolo.
La Solidarietà – vale per tutti gli Sconsolati Cercatori di differenze tra schieramenti – è invece un Valore dirimente ogni dubbio tra la natura della destra e quella della sinistra, costituisce di per sé un criterio guida cui uniformare programmi di governo ed è una buona chiave – sempre a proposito di Cercatori,speriamo un po’ meno sconsolati – per una ripartenza.
Era di maggio, vigilia del referendum inglese sulla permanenza in Europa e Ken Loach non ebbe dubbi nel sostenere pubblicamente il remain : sarà anche criticabile e perfida quest’Europa del rigore e del neoliberismo ma rimanere avrebbe significato darsi la possibilità di cambiare le cose da dentro. Ha detto proprio così : da dentro
Poi, contro ogni previsione, è andata come è andata. Sapienti e analisti ci hanno raccontato la storia (anche vera) di una sinistra chiusa in se stessa ed inadeguata a rappresentare sogni e bisogni, aspirazioni e necessità e via divagando di popoli in rivolta contro élite, caste e classi dirigenti di qualunque risma. Era di maggio e da allora quel diluvio di parole non ci ha più abbandonato.
Così mentre qualcuno aveva già cominciato ad insinuare che populismo non è poi un termine così negativo (pure?), è tornato a soccorrerci Ken Loach con la visione esatta di come stanno le cose. Un poco di respiro nel blob ritrito del di tutta l’erba un fascio.
Saranno anche obsoleti e dunque inadeguati alcuni strumenti con i quali ci ostiniamo a leggere la Realtà ma ogni analisi che non poggia su adeguati distinguo porta diritta ad un’ indigesta, inservibile marmellata : il popolo non è una massa che si esprime con una sola voce come pure le classi dirigenti non sono tutte uguali. Con simili premesse, l’idea di buttare tutto all’aria, naturale esito di ogni populistico programma, lungi dall’essere autenticamente rivoluzionaria, involve in progetti reazionari.Gli esempi non mancano.
Credo che la filiera delle sconfitte non sia completata, armiamoci di pazienza : altre ne arriveranno ma varrà ogni volta la pena di riflettere su quanto indicato dal vecchio regista inglese.Che amiamo.E non solo per devozione alla Causa.
I, Daniel Blake è un film di Ken Loach. Con Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana Shann, Kate Runner. Drammatico, durata 100 min. – Gran Bretagna, Francia 2016. –
Cinema Vesuviano – per gli amanti dei cataloghi – in cui il paradosso è un nobile stratagemma, ovvero l’unico modo per raccontare con esattezza una realtà che abitualmente travalica la fantasia.L’unico per non scivolare in uno dei tanti cliché legati al territorio : dalla necessità che genera comportamenti al limite, al paganesimo del sentimento religioso,all’arte di arrangiarsi. L’universo che vi risiede non è mai troppo facile da definire sebbene il bozzetto – perfino quello di qualità – imperversi da anni, tingendosi ora di nero,ora di rosa, ora di grottesco.Questo film sfiora tutti questi generi ma con la mano felice di chi conosce assai bene la materia e crea una modalità a sé.
Ed ecco a noi l’impresa di Castelvolturno Viola & Desi, siamesi da baraccone esattamente come le Violet e Daisy di buona memoria. Freaks dunque, laddove i mostri, in questo caso come nell’altro, non sono certo le indivisibili sorelle neomelodiche (in puro stile Tatangelo prima della cura) per feste, comunioni e processioni a campare la famiglia intera con performances di indiscutibile e locale successo, non si capisce bene se dovuto alla particolarità fisica o al talento.Che tuttavia posseggono, esattamente come le due decise individualità che vorrebbero esprimere ciascuna per proprio conto, grazie ad un semplice e possibilissimo intervento chirurgico di separazione.Gemelle, sotto questo aspetto,esemplari. Quel che succede al mondo che sta loro intorno a fronte di questa legittima aspirazione è uno dei temi chiave del racconto.
Incantevole – in senso stretto – film diretto da chi, come era già successo con Perez e Mozzarella story, aveva già dato prova di abilità nel penetrare ambiti locali e umane debolezze.
E pazienza se Desi e Viola non andranno a Los Angeles (anche nella finzione avrebbero voluto…).Forse è più giusto che data la generale indifferenza – quando non l’aperto disprezzo – sia il racconto dei poveri cristi in mare a parlare di Noi. Vincere stavolta è meno importante. E poi non è detto.
Indivisibili è un film di Edoardo De Angelis. Con Marianna Fontana, Angela Fontana, Antonia Truppo, Massimiliano Rossi, Toni Laudadio durata 100 min. – Italia 2016. – Medusa
Addentrandovi nelle pieghe della Rassegna Stampa Veneziana leggerete che The women who left, Leone d’oro 2016, è un film di ben 226 minuti (con uno o più punti esclamativi o puntini di sospensione a piacere) e che tale perniciosa dilatazione dei tempi, definita con grande spreco di aggettivi acquatici (fluviale, torrenziale etc), concilia il sonno o la fuga dalla sala. Rivendicando il critico il proprio sacrosanto diritto di spettatore ronfante o fuggitivo, apprenderete così che egli ne scrive avendo visto, se va bene, il film a metà.
A seguire e per meglio accompagnare la disperazione con straccio delle vesti di Distributori ed Esercenti, vi sarà anche offerta l’occasione di apprezzare l’expertise di campioni del box office italiano i quali, pochissimo tergiversando, concluderanno che certi premi non aiutano. (altri che non hanno visto ma ne parlano si aggiungono alla fitta schiera)
Infine che The women who left è un film noioso.
Tutto qui? Più o meno
Se non la ritenessi indispensabile mi verrebbe da scrivere lasciate perdere la critica e andate egualmente a vedere questo film destinando alla visione le aspettative che merita. Oppure che la dicitura completa del Festival continua ad essere Mostra d’arte cinematografica e comunque che il cartellone di quest’anno, ben calibrato tra film noiosi – un nuovo genere? – e rutilanti di hollywoodiana fattura, offriva a noi ampia panoramica sullo stato delle cose cinematografiche nel mondo e, di conseguenza, alla Giuria discreta possibilità di scelta.
Oppure adottando una modalità di argomentazione ironico-paradossale molto in auge, che, in fondo rispetto alle nove ore di Death in the Land of Encantos, il regista Lav Diaz con questi suoi ultimi duecentoventisei minuti ha finalmente trovato la sintesi.
Invece dirò che per raccontare (mostrando e non spiegando) la Complessità in contesti di cui così poco sappiamo, la dilatazione del tempo attraverso lunghe inquadrature e i dialoghi ridotti all’osso fanno parte di una scelta artistica plausibile e sin necessaria all’Idea di Cinema che Lav Diaz ha ben impressa nella mente. E che quando da location per niente accattivanti emerge così immediata la Bellezza, siamo di fronte all’esito di una lavorazione attenta e meticolosa affidata a specialissimi effetti quali l’impiego del bianco e nero, un modo particolare di usare la Luce, una recitazione ineccepibile.Quando si dice un gran mestiere.
Ecco perché una Mostra che si rispetti non può esimersi dal promuovere questo cinema che diversamente, data la scarsezza complessiva dei mezzi ( 75.000 dollari di budget) non troverebbe – e sarebbe un peccato – cittadinanza nemmeno nei circuiti più segreti e misteriosi della cinefilia arrembante.
Poi certamente ci sono i gusti ma se la Critica dovesse essere affidata solo a quelli allora tanto varrebbe far scrivere di cinema la Santanché e il suo nuovissimo innamorato Dimitri d’Asburgo – Qualcosa, rincorsi sul red carpet e intervistati sul tema dell’Amore che, manco a dirlo, vince sempre.Roba che manco all’epoca del Conte Volpi.
The women who left è una storia (liberamente tratta da un racconto di Tolstoj Dio vede la verità ma non la rivela subito) di una donna accusata ingiustamente di omicidio che, finalmente riconosciuta innocente, esce dal carcere dopo trent’anni e ritrova un Paese in cui sono rimaste immutate solo violenza e ingiustizia.Temi non inediti della Casualità che soprintende le nostre vite e della umana fragilità sobriamente ed sviluppati in elegante e non fine a se stessa cornice.
Grande prova della protagonista Charo Santos-Concio impegnata a rendere con evidenza il ruolo non semplice di chi è alla ricerca (desiderata e temuta) della vendetta nei confronti del suo accusatore ma anche di una sorta di propria riedificazione di se stessa vissuta e realizzata attraverso la solidarietà nei confronti di un’umanità dolente e messa forse peggio di lei. Da vedere con animo sgombro da preconcetti.
Dedicato dal regista al popolo filippino per la sua lotta e alla lotta dell’umanità.The women who left è un film di Lav Diaz. Con Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz, Shamaine Buencamino, Nonie Buencamino Titolo originale Ang babaeng humayo. Drammatico, durata 226 min. – Filippine 2016.