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Mese: Aprile 2008

In nome del popolo romano

In nome del popolo romano


Promettendo sgomberi e deportazioni, Gianni Alemanno cattura il voto delle periferie. Non è una novità dell’Oggi . Dal 1976 al 1985, una terna di Sindaci -  Argan Petroselli Vetere –  eletti nelle liste del PCI ed espressione di una classe politica di prim’ordine lavorò alla riqualificazione del territorio – si direbbe oggi – abbattendo le baraccopoli ed edificando le abitazioni per i cittadini , allora erano romani, che vi abitavano. Ma non solo. L’idea di Luigi Petroselli di un diverso rapporto centro – periferie come  appartenenza ad un ‘unica città, espresso simbolicamente dall’Estate Romana e il parco archeologico dal Campidoglio all’Appia antica, al centro della città, in modo da far coincidere come diceva Nicolini il nome e la cosa Roma , si andava delineando.  Ugo Vetere, amministrazione specchiata, moralità e conti in ordine, buon ultimo, dovette cedere la poltrona di sindaco, sconfitto proprio in quelle periferie che aveva contribuito a risanare. L’alternanza – allora si votava con il proporzionale e il sindaco non veniva eletto direttamente –  non poteva essere elemento del dibattito post elettorale nemmeno nella forma elementare del fisiologico bisogno di cambiamento e, nello smarrimento generale di un partito comunista  che proprio allora cominciava ad interrogarsi sul proprio destino, fu concluso, non del tutto a torto, che, per un difetto di comunicazione, gli indubitabili vantaggi dell’amministrazione di sinistra, non erano stati opportunamente promossi tra i cittadini e che il difficile rapporto col sottoproletariato urbano andasse risolto con una maggiore presenza anche a costo di una vera e propria mutazione dei linguaggi tradizionali. In pochi pensarono che quel che stava accadendo non dipendeva solo da buone o cattive amministrazioni. I tre sindaci che negli anni successivi si alternarono, confermando gli elettori ogni volta, la Democrazia Cristiana al comando, consegnarono la città al degrado e alla corruzione. Signorello, Giubilo, Carraro, i comitati d’affari del secondo che ben anticiparono tangentopoli e le  imprese del terzo che guadagnarono a lui e ai suoi gli onori delle cronache nazionali. Era il 1993 quando con la mossa del cavallo rappresentata da un sistema elettorale differente, nuove le regole e nuovissimo, data la sua storia, il candidato, portammo Francesco Rutelli in Campidoglio. Oggi a distanza di quindici anni, la destra si riappropria della città. Chi ha proposto Rutelli candidato per il 2008, evidentemente  più che pensare al rinnovamento, ha ritenuto proporre l’incarnazione della continuità stimando il Modello Roma, vincente comunque. Invece la percezione è stata della riproposizione di un vecchio arnese dismesso dalla politica nazionale da riciclare come sindaco.E questo è valso per gli elettori ma anche per gli alleati visto lo scostamento di 60.000 voti  da Comune a Provincia e un diverso orientamento nel voto dei municipi.  Ma, Rutelli a parte, non è bastato nemmeno che a Roma il Pil sia salito più che in ogni altra città italiana, non sono bastate le Notti Bianche, la Feste del Cinema o l’Auditorium, la nuova Fiera di Roma o la metropolitana : la Roma che trae ricchezza dalla sua stessa vita ed ha instaurato in questi anni relazioni internazionali proponendosi come una città di prestigio mondiale, ha ceduto il passo ad un’immagine distorta, irreale di  città insicura, degradata trascurata dai suoi amministratori a vantaggio della facciata : il cinema prima di tutto.  Oppure  il consolidamento di  gruppi di potere accomodati in salotti immaginari che di tanto in tanto, i detrattori,  tra invenzione e desiderio indicano come luoghi di decisione. Una vecchia cantilena cara alla destra e anche a una certa sinistra del Rigore e dei Quaresimali.

Giocano in questo voto molti fattori dipendenti dall’andamento nazionale e più strettamente  legati ad esigenze territoriali: l’assillo della sicurezza con quella distanza tra percezione e realtà dei numeri che è stata la chiave di volta della vittoria della destra alle politiche, innanzitutto. Limitare la propria indagine ai soli confini del candidato sbagliato significa semplificare una questione che invece richiederebbe maggior sforzo analitico. Il Pd spero vorrà riflettere su un’antica magagna: il ricambio della classe dirigente che pure è un punto fermo nei propositi delle democratiche e dei democratici che hanno accettato di dar vita alla nuova formazione , importa un maggiore impegno in direzione dello spazio e delle responsabilità da conferire ai giovani,alle donne, ad esponenti della società civile. E’ improbabile che  quand’anche si fosse voluto sottoporre alle primarie la candidatura a sindaco di Roma, ci sarebbero stati competitori credibili  per Francesco Rutelli. La sua campagna elettorale pur  generosa ma inevitabilmente  fagocitata dalla campagna nazionale e, al secondo turno, sebbene correttamente giocata sul”esaltazione dei risultati ottenuti e sull’antifascismo, non è riuscita ad essere convincente. Sulla sicurezza tema sensibile in una campagna elettorare ha dovuto  giocare di rimessa preso, come tutti noi, in contropiede da un utilizzo spietato da parte dell’avversario, di recenti episodi di cronaca.Una serie di concause, in definitiva, ne hanno accentuato la debolezza. Inutile recriminare o attribuire responsabilità dello sfracello a Veltroni : in cinque mesi non si risale la china del consenso perduto, non si approntano due campagne  elettorali difficili contestualmente rinnovando il partito. Credo che anche in caso di conta congressuale, la sua leadership non sia in questione. Tornando a Roma, chi  scrive appartiene alla scuola del rispetto per il popolo sovrano,pertanto è  giusto che Gianni Alemanno governi la città che il popolo stesso gli ha affidato. Pur non essendo insensibile ai saluti romani e alle spacconate, particolarmente sulle scale di Palazzo Senatorio, simbolo della Municipalità, più che l’arroganza dei vincitori brucia e immagino brucerà ancora per molto, la fine del Modello Roma, un progetto appassionante che  per arditezza e modernità, è stato il compedio ideale di un Fare Politico che riusciva a rendere disponibili e al servizio della città idee, sensibilità, ed esperienze. Un percorso di partecipazione che da Petroselli a Veltroni si è rivelato fonte di entusiasmo e infinite soddisfazioni. Ciò che è stato realizzato non potrà essere facilmente sottratto ai romani pena una sensazione collettiva di grande vuoto. E questo rimane motivo d’orgoglio e di una non piccola consolazione.

Nell’illustrazione il Tabularium realizzato in una galleria che unisce la parte vecchia e quella nuova dei Musei Capitolini


Grandezza dell’anima russa

Grandezza dell’anima russa

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I vostri romanzi sembrano scritti contro i rivoluzionari, ma in realtà sono più incendiari dei proclami terroristi. L’ispettore di polizia Pavlovich non lo sa, ma sta esprimendo, con largo anticipo, tutto il controverso sentimento che la critica marxista sviluppò nei confronti di Fedor Dostoevskij, l’opera del quale ammirò, senza mai riuscire ad amarla. Uno fra tutti Lukacs,  seppur nell’ammissione che quel modo in cui i personaggi si consumavano o si disintegravano costituiva la protesta più ardita che mai si sia pronunziata contro l’ordine sociale dell’epoca. Il che già rende immediatamente  comprensibile perchè l’epoca staliniana appena tollerasse Dostoevskij. Meno motivati continuano ad apparire i detrattori  Nabokov e Kundera, quest’ultimo in particolar modo offeso dagli eccessi del mondo dostoevskiano fatto  di cupi abissi e di sentimentalismo aggressivo. Ma uno si vantava di essere il nipote del comandante della Fortezza di San Pietro e Paolo in cui fu recluso lo scrittore e quell’altro è ben distante dalla comprensione della grandezza dell’anima russa. Entrambi poi, sono scrittori della contemporaneità al cospetto del Monumento e pertanto lontani da una visione seppur vagamente obiettiva.

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Ma, controversie a parte, vale comunque la pena di cogliere l’offerta contenuta nelle intenzioni  di Giuliano Montaldo di fare un film su Dostoevskij  per chi non sa nulla di lui, non fosse altro perchè, aggirati i rischi connessi, nulla viene sacrificato al movente didattico che qui si traduce in una esaustiva definizione della visione del mondo dello scrittore e dei suoi contemporanei, resa attraverso la narrazione, frammentata da flashback, di alcuni episodi della sua biografia e non soltanto nelle puntualizzazioni e nelle spiegazioni alle quali pure il racconto fa ampio ricorso.  Nella Russia di un secolo e mezzo fa, con i fallimenti di ogni istanza rivoluzionaria proiettati in una triste realtà, Montaldo ravvede analogie col presente. Dostoevskij è, in effetti, un buon tramite, con l’adesione ai petraševcy, il carcere, la condanna a morte tramutata in extremis (sai che delusione per lo zio di Nabokov) e il carcere siberiano, resterà per tutta la vita l’uomo capace di aderire  alle inclinazioni opposte e di darne una rappresentazione trascinante soprattutto nel caso in cui  se ne proponga una condanna, perchè in realtà, più che dover scegliere se stare dalla parte dello Zar o da quella dei terroristi, lui semplicemente opta per stare dalla parte della condizione umana a qualunque costo e di qualunque rango.Tante le cose belle di questo film dall’allestimento sontuoso, al cast di attori e tecnici incredibilmente bravi, alla frenesia dell’attentato imminente, assimilata alla frenesia della consegna del nuovo romanzo. Il giocatore. Da un’idea mai realizzata di Konchalovsky, cinquanta giorni di lavorazione e vent’anni di riflessione per il ritorno di Giuliano Montaldo alle sale e tra di noi. 

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I Demoni di San Pietroburgo è un film di Giuliano Montaldo. Con Miki Manojlovic, Carolina Crescentini, Roberto Herlitzka, Anita Caprioli, Filippo Timi, Patrizia Sacchi, Sandra Ceccarelli, Giovanni Martorana. Genere Drammatico, colore 118 minuti. – Produzione Italia 2007. – Distribuzione 01 Distribution

Viva l’Italia, l’Italia che non ha paura

Viva l’Italia, l’Italia che non ha paura

Un’idea precisa di Futuro alimenta lo spirito della Resistenza – ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi  – Quella stessa idea, sostenne i Liberatori – per dignità non per odio – nell’impresa dolorosa di affrancare il nostro paese da un’orribile dittatura. A distanza di anni,  anche noi ci dibattiamo nel disperato bisogno di un Futuro del quale spesso avvertiamo il senso di sottrazione. Se la memoria del passato non riesce ad animare il nostro guardare avanti, la festa della Liberazione sarà presto ridotta ad un rituale deporre le corone sotto alle lapidi. Ma  la Resistenza parla ancora alle nostre coscienze con il linguaggio moderno della solidarietà – soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi – e della difesa dei diritti calpestati – ai nostri posti ci troverai, morti e vivi, con lo stesso impegno – Non merita, il sacrificio  di quelle donne e di quegli uomini di essere vanificato, ne’ le attese dei ragazzini dell’immagine qui sopra, di essere deluse.

Francesco De Gregori ci ha messo il titolo, Piero Calamandrei gl’inserti dalla poesia “Ora e sempre Resistenza”. Di mio c’è una bella voglia di contrattaccare.

Il ritorno del Fenomeno®

Il ritorno del Fenomeno®

L’informazione, supporto naturale ed insostituibile veicolo di tutte le campagne securitarie del mondo, racconta di città indifese, esposte, a seconda dei casi, ai rischi di una criminalità o di un terrorismo dilaganti e fuori controllo. Soffiando sul fuoco della paura, invocando misure straordinarie, costruisce consensi e prepara il terreno sul quale prospera la fortuna politica di forze conservatrici, quando non reazionarie.Ma non solo. In Italia, di recente,  l’informazione si è anche molto adoperata a raccontare un Paese che non c’è. Una stortura evidenziatasi durante la recente campagna elettorale, periodo durante il quale, nessuno,  dal commentatore più autorevole al politologo più raffinato, è riuscito ad intuire quel che sarebbe realmente accaduto. Una vittoria di misura del centro destra è stata sì annunciata insieme ad una vasta gamma di considerazioni sulle ricadute che un eventuale pareggio tra le principali forze in campo,  avrebbe prodotto. Nessun’altra variabile però, men che meno, la possibilità che un riesplodere dei consensi alla Lega potesse rimettere in gioco gli esiti previsti. La Lega è il vero fenomeno di queste consultazioni. Eppure il Carroccio tutto è fuori che una forza politica dedita ad un lavoro sotterraneo, impercettibile. Pontedilegno, le ampolle con l’acqua del Po, le ronde, Pontida, sono comparsi sugli schermi televisivi e sulla carta stampata, additati però alla nostra attenzione come i tratti di una folcloristica anomalia. Quasi innocua, nella rappresentazione che ci è stata tramandata di un’espressione politica territoriale dai tratti talvolta ingenui, talvolta beceri. Poche voci a rammentarci gli esiti devastanti che le t – shirt di Calderoli hanno prodotto davanti ad una nostra ambasciata all’estero appena qualche tempo fa, ma poche anche quelle che si sono incaricate d’indagare sulla forte connotazione popolare dell’adesione a certe formule xenofobe. Il nostro immaginario è stato dirottato sulle ampolle del Po. Ma questo vuol essere solo uno dei tanti esempi , un altro fuori casa nostra,  potrebbe essere rappresentato dai Rifiuti che secondo la stampa asiatica sommergono non solo Napoli ma l’intera Europa o dalla città di Roma che, grazie alle strumentalizzazioni della recente campagna elettorale è divenuta improvvisamente omologa a quella di Mogadiscio. Produzione di opinioni a mezzo di opinioni: l’informazione e la comunicazione funzionano così. La nostra percezione del presente soggiace ad un grande dispositivo massmediale che con buona pace della moltiplicazione di fonti, notizie e commenti che continuamente produce, rilascia pochissimi elementi originali alla comprensione dell’attualità. L’attenzione allo scarto e alla differenza, necessaria al pensiero per individuare i varchi del cambiamento possibile, mal si concilia con il dispositivo della ripetizione cui tutto il sistema dei media è improntato. E l’ascolto di soggetti ed esperienze che restano ai margini dell’ordine del discorso dominante, viene anch’esso depotenziato da un sistema della comunicazione che accende e spegne i riflettori sulle voci fuori dal coro, a caso, un giorno sì e cinque no, una testimonianza oggi e l’oblio quasi sempre, un’apparizione in tv, un trafiletto sulla stampa a piccolo risarcimento dell’assenza destinata dal mercato economico e politico delle merci e delle idee. Mai la censura è stata così potente come nella società dei media che tutto dice e tutto fa vedere. Mai l’invisibile e l’indicibile di un’epoca sono stati così estesi come nell’epoca della massima visibilità e dicibilità: è questo il paradosso che rende insieme più possibile e più arduo decifrare il tempo presente. Non per questo possiamo desistere: è sbagliato cedere alle derive apocalittiche del discorso sui massmedia di cui è costellato il pensiero critico del novecento,  è sulla moltiplicazione, non sulla riduzione dell’informazione e della comunicazione che le strategie di resistenza devono comunque puntare. Significa , quanto alla comprensione del presente, che non dobbiamo mai cessare di interrogarci su quello che vediamo e su come ce lo fanno vedere ma anche su quello che non vediamo perché nessuno ce lo fa vedere. Su quello – sempre più – che è consentito dire, e su quello che non è consentito dire e resta censurato e ancor più, su quello che non serve censurare perché proprio il regime della dicibilità di tutto rende tutto equivalente e privo di senso. Che cosa va perduto di ciascuna esperienza e di ciascuna differenza nel gigantesco dispositivo della traduzione linguistica che consente la comunicazione globale? Quante pratiche di resistenza al potere riesce a nascondere e a depotenziare il potere? Sono domande che dovremmo prendere l’abitudine di farci ogni volta che sfogliamo un giornale o guardiamo un tg. E la patinata impaginazione del presente che ogni mezz’ora viene approntata per ricondurlo forzosamente nelle compatibilità dell’ordine del discorso ci apparirebbe subito per com’è, piena di buchi e di strappi e di paradossi, altrettanti varchi in cui infilarsi per sovvertirlo o, quantomeno, ostacolarne l’onnipotente pretesa. Il Fenomeno®, comico, comunicatore, agitatore  di piazze più o meno telematiche,  tutt’altro che immune da sospetti  di manipolazione,  sarà in piazza domani a Torino sul tema dell’Informazione e del delicato rapporto tra giornalismo e potere. Non un tema da poco. Tra le proposte della sua nuova campagna, l’abolizione del contributo statale alla carta stampata. Una tendenza iperliberista vorrebbe che i giornali affidassero i propri destini esclusivamente al mercato e alla libera concorrenza, come è delle merci. Varrebbe la pena, una volta tanto, di riflettere sulla scorta di qualche opportuno distinguo e, eliminate le anomalie di quella legge che col metodo del finanziamento a pioggia, consente uno spreco di denaro pubblico  per soccorre testate inesistenti o confortarne altre in ottimo stato di salute, chiedere piuttosto che siano fissati criteri certi per continuare a sostenere esperienze editoriali  che non potendo o non volendo vantare proprietari eccellenti – grandi gruppi o banche – ovvero essendo poco inclini a raccolte pubblicitarie sconsiderate, cadrebbero vittime, proprio per quanto sopra detto ,  del loro stesso essere indipendenti voci fuori dal coro. I giornali sono troppi – dicono –  e la qualità dell’informazione è sempre più rara – principio da far valere indipendentemente dalla quantità – ma, ci mancherebbe altro, che un discorso di moralizzazione ed indipendenza dell’informazione, falcidiasse proprio quelle esperienze che negli anni sono state, in tal senso,  più significative. Non tutto può viaggiare sulla Rete che sarà anche libera e gratuita e grandemente esaltata dai supporters come insostituibile occasione democratica di informazione e confronto , ma che ha dimostrato, dimostra e dimostrerà sempre, l’imprescindibile esigenza di essere comunque assistiti da quel senso critico e da quell’interrogarsi sulle cose che sta alla base di ogni etica e di ogni libertà.

 

La boccata d’aria ( ghe pensi mì )

La boccata d’aria ( ghe pensi mì )

Alitalia 34

In un’azienda normale, che normalmente perde un milione al giorno e che oltre ad essere sull’orlo del fallimento, non è un modello di efficienza e nemmeno quello che comunemente viene definito un buon affare, si sarebbe allontanato l’unico compratore credibile ( rimasto)  e chiesto un finanziamento ad un istituto bancario per tirare a campare la produzione , solo se una cordata di emiri sperperoni (ed improvvidi ) avesse stipulato un patto di sangue con la proprietà e messo sul piatto un’offerta da capogiro a fronte di un piano industriale da maghi del know how. Ma Alitalia, si sa, di normale non ha nemmeno la spillatrice dell’ufficio acquisti. Dunque, continua la saga, il tempo passa  e il conto da pagare sale. In compenso, al posto della cordata degli emiri sperperoni, abbiamo la boccata d’aria – come l’ha definita Fini  – 300 milioni di Euro ( 150 in più del previsto su richiesta di Berlusconi) del Prestito Ponte, necessaria a garantire il funzionamento del servizio fino a conclusione di nuove trattative. E questo intanto smentisce la favoletta di campagna elettorale sull’entità; del cash flow e sul largo margine di autonomia che, da una parte avrebbe spostato  di qualche mese l’ombra di un fallimento, dai  più ritenuto imminente, e dall’altra, consentito di trattare col massimo della tranquillità e, se del caso, di esaminare  offerte di altri acquirenti . Offerte e acquirenti che allo stato ancora non si sono materializzati. Oggi invece lo Stato interviene in tutta fretta, attivando una procedura che per motivi di ordine pubblico (ovvero a fronte del prosieguo di un servizio essenziale) deve essere richiesta a Bruxelles per l’avallo  e finanziata dal Ministero degli Interni per non risultare come un  aiuto statale alle imprese, e per questo, stigmatizzato dalle normative comunitarie. Niente paura però,  il prestito sarà restituito a fine anno a condizioni di mercato, cioè al tasso d’ interesse corrente. Una bella consolazione . Peccato che essendo lo Stato proprietario di Alitalia al cinquantanove per cento ( e se s’indaga sul resto della proprietà, forse anche qualcosina di più) ogni perdita, interesse passivo o dissesto, gravi comunque sulle spalle del contribuente appunto per quel cinquantanove per cento. Resta inteso che questo oneroso pannicello caldo, non ha effetto alcuno sulla perdita che noi continueremo a sostenere con quattrini nostri   che nessuno mai ci restituirà. In compenso il premier in doppiopectore scravattato  Caraceni,  potrà far colazione con Cossiga e con tutti quelli che riterrà, facendo vanto di efficienza meneghina ” ghe pensi mi “. E chissà perchè, proprio per questo, più  che una rassicurazione, ha il sapore di una minaccia.