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Tag: La fabbrica del cinema

Dentro lo scafandro

Dentro lo scafandro

 

 

 

 

 

Ho raccontato una storia vera. Il giornalismo non ha fatto il suo dovere sull’Iraq. 4.000 morti e solo quattro immagini di tombe: è il dato del New York Times. E’ la domanda di verità è sempre più forte in America. Io volevo che la gente si mettesse nei panni dei soldati al fronte. Che provasse quello che provano loro. Psicosi e dipendenze comprese.

Kathryine Bigelow

 

 

 

 

In esergo  una citazione da Chris Hedges – già inviato di guerra embedded del New York Times, premio Pulitzer e docente a Princeton –  La furia della battaglia provoca dipendenza totale, perchè la guerra è una droga. Dunque, sulla scorta di questa illuminante considerazione, Katharine Bigelow,  del conflitto iracheno ci racconta il punto di vista dei soldati americani, sfatando più di un luogo comune sui volontari, mostrando senza cinismo, persone disilluse per le quali l’esibizione del coraggio e  l’adrenalina da guerra  possono provocare dipendenza. E sono talmente atroci insostenibili e ansiogene le sequenze, che lo spettatore  si ritrova, non di rado, costretto nello scafandro del protagonista, uno specialista che disinnesca ordigni esplosivi disseminati un po’ dovunque – come lo sono gli agguati del resto –  ma soprattutto confezionati con inimmaginabile sadica fantasia . Rinunziare allo stile tradizionale del film di denuncia  o di controinformazione pacifista, significa dunque  mostrare direttamente i fatti, le operazioni, nell’analisi condotta con uno stile lucido ed estremamente diretto, di una delle più controverse ed inutili guerre al mondo. Contro e fuori campo, nascosto nell’ombra, un popolo tradizionalmente  pronto a tutto pur di resistere. La conclusione ripetuta da Bigelow,  in tutte le interviste rilasciate è che da un simile luogo, è bene andar via prima possibile. C’è un solo uomo che può riportare i soldati a casa. Non posso immaginare un ex soldato alla Casa Bianca.

The hurt locker è la cassetta che contiene gli effetti personali dei soldati morti in guerra.

 The Hurt Locker è un film di Kathryn Bigelow. Con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Guy Pearce, Ralph Fiennes, Brian Geraghty, David Morse, Christian Camargo, Evangeline Lilly. Genere Drammatico, colore 131 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Videa – CDE –

Jungle red !! (Mary Sylvia Crystal e le altre)

Jungle red !! (Mary Sylvia Crystal e le altre)

A Mary Haines non sarebbe mai passato per la testa di reagire alle corna spazzolando un panetto di burro intriso nella cioccolata, nè di recarsi in una spa per riconquistare Stefano, il fedifrago – nonchè facoltoso banchiere in Wall Street –  consorte, irretito da Crystel Hallen, la commessa di un reparto di profumeria dove le essenze si chiamano Summer rain e i flaconi hanno il  tappo sormontato da un ombrellino di cristallo. Mary del resto è perfetta così com’è : elegante, intelligente, bella, ironica: ma soprattutto orgogliosa, così almeno le sceneggiatrici Anita Loos e Jane Martin e Clare Booth Luce, autrice della commedia Women da cui è tratto il film omonimo, definiscono l’esigenza di lealtà, chiarezza e fedeltà al patto coniugale che sosterrà Mary nel proposito di non recedere da una posizione intransigente. E questo nonostante le sue amiche e sua madre,  l’irresistibile Mrs. Moorehead, le spieghino in tutte le lingue  come in simili frangenti forse sarebbe più saggio chiudere un occhio …così fan tutti ,  i mariti, s’intende.  E’ il 1939 quando George Cukor dirige questo incantevole film  in cui fa recitare 130 attrici, perché di mariti o amanti, si parla praticamente per  tutto il tempo ma di ruoli maschili non ce n’è  manco l’ombra. Gli uomini in questo film, sono invisibili fantasmi che vivono esclusivamente nel racconto  delle donne. Escamotage geniale, che obbliga sceneggiatrici e regista a soluzioni narrative imprevedibili: saranno cuoca e cameriera di casa Haines  a raccontarci, in un passaggio esilarante, la lite che preluderà al divorzio, mentre alle manicure, alle sarte, alle commesse alle mannequinnes sarà demandato il compito di tessere una trama non priva di considerazioni avveniristiche sul rapporto tra i generi . Altro che gli uomini che mascalzoni, Betty Friedan è già sbarcata tra di noi e ha cominciato il suo lento ma necessario lavoro di decostruzione. Così quando Mary Haines risponderà alla madre che i tempi sono cambiati da quando le donne erano gattine sottomesse – Ora è ora! Stefano ed io siamo uguali – il racconto prenderà immediatamente la piega della riscossa, dolorosa – quindi niente impennacchiamenti o restyling per riconquistarlo – ma inesorabile. Un film perfetto, per dialoghi, interpreti e superbe ambientazioni. La sfilata di mode che dura cinque minuti, unico momento in cui il film da bianco e nero diventa a colori, è una vera e propria sontuosa coreografia con tanto di gabbie con animali,  orchestra e scenografie da musical di Broadway. Ovvero Sydney, l’istituto di bellezza in Park Avenue – che sembra un tempio pagano tra  archi, scalinate e salette per i sacrifici umani – centro di raccolta di pettegolezzi la cui diffusione è poi  affidata alle loquaci manicure insieme all’applicazione del famoso Nail Polish Jungle red, rosso giungla, il tormentone, simbolo dell’aggressività femminile che viene ripetuto durante tutta la durata del film.


Difficile dunque riprodurre le atmosfere e la magia  di Women, un film che si è avvalso oltre che del tocco inequivocabilmente esperto in materia di ruoli femminili,  di George Cukor, di un cast di eccezionali attrici :  Norma Shearer, Joan Crawford, Rosalind Russel, Joan Fontaine, Paulette Goddard e di una serie di generiche di Hollywood alle quali sono affidate parti  minori, ma egualmente dotate di professionalità e talento. Una tra tutte Marjorie Main, la proprietaria della pensione di Reno che spiega alle annoiate divorziande della upper class newyorkese, cosa significhi davvero un marito violento.  Nonostante la difficoltà dell’impresa, quest’anno Diane English ha provato a riproporre Women in un remake piuttosto fedele all’originale  per storia e ambientazioni e che peraltro mantiene anche il dato del cast tutto femminile. Ne è uscito un film, a suo modo,  divertente. Tuttavia dal 1939 ad oggi i cambiamenti sono stati tali che l’inossidabile trama ne è risultata giocoforza, influenzata. E questo non solo perchè, di questi tempi, un magnate di Wall Street e una commessa tutta strategia e sogni di rivalsa, non hanno più lo stesso appeal di una volta,  ne’ Mary Haines  ha più bisogno di proclamare la parità dei diritti, essendo arrivata più o meno dove voleva . Ma sono i connotati di quel suo pianeta fatto di relazioni femminili controverse ma infine solidali,  di regole ( da infrangere) , di passioni e di progetti ( da perseguire con tenacia ) ad essere profondamente mutati. Per raggiungere la meta, Mary ha dovuto lasciare il ghetto frivolo e profumato, per confrontarsi con gli uomini. Senza rimpianti beninteso – una galera è una galera anche se ha le pareti rivestite di seta e profuma di Summer rain –  ma nel tragitto, qualcosa di indispensabile e prezioso è andato perduto e il film del 2008,  inintenzionalmente,ne rivela la carenza. Si è persa per esempio l’ironia che per l’occasione si è trasformata in battute pesanti ed esplicite. Si è persa la leggerezza, e anche il senso della conquista amorosa è svanito, trasformandosi da gioco affascinante ed ambiguo, in una guerra da combattere a colpi di biancheria intima. Mary Haines moglie orgogliosa (cioè piena di femminile dignità) da Norma Shearer è divenuta Meg Ryan, una mogliettina ricciolona e un po’ melensa, resa fragile dal tradimento coniugale. Entrambe usufruiranno di un happy end, una sola però rimarrà per sempre, la vera Mary Haines.

The Women anno 1939 è un  film di George Cukor. Con Joan Crawford, Norma Shearer, Rosalind Russel, Flora Finch, Mary Boland, Paulette Goddard, Phyllis Povah, Joan Fontaine, Virginia Weidler, Lucile Watson, Marjorie Main, Muriel Hutchison, Virginia Grey, Margaret Dumont, Hedda Hopper, Dot Farley. Genere Commedia, b/n 132 minuti. – Produzione USA 1939.

The Women anno 2008 è un film di Diane English. Con Meg Ryan, Annette Bening, Eva Mendes, Debra Messing, Jada Pinkett Smith, Carrie Fisher, Cloris Leachman, Debi Mazar, Bette Midler, Candice Bergen. Genere Commedia, colore 114 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Bim

 

Gelmini, vai al cinema

Gelmini, vai al cinema

Troppe riforme e troppo improntate a criteri economicistici, senza un Progetto o un’Idea di Scuola,  ma buttate lì a caso, generano caos, consegnando gl’insegnanti, privi di mezzi adeguati , alla solitudine e alle difficoltà del dover affrontare un mondo in continua evoluzione. Intorno all’ipotesi che le classi siano probabilmente l’ultimo punto di osservazione delle dinamiche legate alla mixité e che la scuola in genere, sia un luogo in cui si concentrano attenzioni politiche e meccanismi autoritari, si sviluppa questo Entre les murs – qui da noi tradotto con l’insignificante La Classe  –  vincitore , a buon diritto, della Palma d’oro a Cannes 2008. Girato in un vero liceo parigino del 20 Arrondissment, con autentici  studenti, inseriti in un gruppo di lavoro, adottando il regista, il metodo del laboratorio teatrale(canovaccio e sessioni d’improvvisazione), Entre les murs è un film sul Valore dell’ Insegnare e dell’Apprendere e della relazione che ne deriva fatta di scambio, crescita e ricerca collettiva Vivace come la macchina da presa che si muove entre les murs, con grande disinvoltura ma soprattutto capace di cogliere l’essenza del reale senza retorica, enfasi o sbavature di sorta.Tutto merito del taglio – ne’ fiction ne’ documentario –  che si è scelto . Tratto dall’omonimo libro di Françoise Begaudeau – che nel film recita il ruolo dell’insegnante – diretto da Laurent Cantet – il regista di Ressurces Humaines – un film da vedere pensando a quali effetti possano avere la disattenzione e i dettati gelminiani, in contesti scolastici oramai, sempre più  multietnici.

 

 La classe (Entre le murs) è un film di Laurent Cantet. Con François Bégaudeau, Nassim Amrabt, Laura Baquela, Cherif Bounaïdja Rachedi, Juliette Demaille, Dalla Doucouré. Genere Drammatico, colore 128 minuti. – Produzione Francia 2008. – Distribuzione Mikado

 

I torti dei vincitori

I torti dei vincitori

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Forse il vero problema è che il Miracolo di Sant’ Anna nemmeno sembra un film di Spike Lee. Pletorico, lento, zeppo di episodi, sottostorie e sentimenti  a tal punto che diventa difficile dominare o ricondurre, con coerenza, al racconto, la materia che ne deriva . Quindi un po’ di polemica   - stucchevole in verità – sull’eventuale revisionismo dell’ operazione, potrà guadagnare  qualche spettatore in più ad un film ambizioso che non sempre si rivela all’altezza delle aspettative.  Lui, Lee, d’altro canto, non ha dubbi e sa benissimo da quale parte siano le vere responsabilità e questo non solo perchè nei titoli di testa avverte che quella strage fu ordita e messa in atto, con ferocia inaudita, dai nazisti – come pure ha stabilito una recente sentenza del tribunale militare – Tuttavia non rientrando il suo punto di vista nella logica della guerra giusta con i buoni tutti da una parte e i cattivi dall’altra, concentra le sue attenzioni sui  torti dei vincitori. Non sulle ragioni dei vinti, si badi bene, tantomeno sulla loro buona fede,  Categoria alla quale,  qualcuno vorrebbe attribuire dignità di strumento d’indagine storica ma che forse è  più consona a valutazioni di carattere morale. Ciò detto, la visione di Spike Lee – che tra le infinite qualità non annovera quella della simpatia, soprattutto quando si tratta di difendere le proprie scelte artistiche – si colloca tra quelle autenticamente pacifiste che definiscono la guerra una follia, da qualunque angolazione la si guardi. Da qualunque parte si sia schierati. La quadratura del cerchio sta tutta in questa premessa. E’ revisionismo tutto ciò? Magari se si trattasse di un libro di storia se ne potrebbe discutere. Qui però si tratta di fiction, uno dei territori dell’Arte in cui la verità è importante ma soprattutto è in gioco come la si racconta. Lo ha ribadito l’autore del libro dal quale è stato tratto il film, James Mc Bride, definendo  con chiarezza il suo, un modo romanzato di raccontare la realtà, laddove si immagina, tra le altre cose,  una faida tra partigiani uno dei quali è in combutta coi nazifascisti per vendicare il fratello ucciso dal suo capobanda. Spike Lee fa bene a non scusarsi per aver indagato sulle perverse ricadute che una guerra civile importa. Anche noi italiani del resto abbiamo qualche episodio non proprio commendevole da annoverare in merito al comportamento e alle strategie degli alleati – qualunque fosse il colore  della pelle – Ciò sia detto  non per pareggiare una partita d’impossibile quadratura. Ma tanto per rafforzare la tesi del regista sulla follia del conflitto. Anche se nessuna verità, nessun fare i conti col proprio passato nessuna vera o presunta buona fede del nemico, potrà mai compromettere il senso che ha avuto la battaglia per affrancarsi dalla dittatura. E questo Spike Lee lo sa.

Miracle at St. Anna è un film di Spike Lee. Con Derek Luke, Michael Ealy, Laz Alonso, Omar Benson Miller, Matteo Sciabordi, John Leguizamo, Joseph Gordon-Levitt, Valentina Cervi, Pierfrancesco Favino, John Turturro, Chiara Francini, Omero Antonutti. Genere Drammatico, colore – Produzione USA 2008. – Distribuzione 01 Distribution

 

Se il mito dell’Indistruttibile crolla

Se il mito dell’Indistruttibile crolla

Cinefilo di un certo rango, colto in flagrante visione di questo imprevedibile blockbuster, sere fa, ha prodotto  a – peraltro non richiesta –  sua  discolpa la seguente citazione da Wittgenstein ( Ludwig ) C’è sempre qualcosa d’intelligente in uno stupido film americano, mentre sono sempre stupidi i film non hollywoodiani intelligenti. Dunque, se ancora persiste in qualcuno, l’idea balzana di voler sembrare intelligente,  la citazione è disponibile e utile in varie occasioni. Nel caso di Hancock – che così si chiama in omaggio al primo firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza –  però siamo di fronte ad un fenomeno di vera e propria mutazione del supereroe cinematografico made in USA. I tempi cambiano e non ci sono più le tutine pastello, le mantelline e quell’aria sana, vitaminizzata e consapevole della Missione Superiore da compiere che solo i titolari di superpoteri, possedevano. Tant’è che persino il Batman di Nolan ha dato forfait, divenuto incapace finanche di distinguere  il bene dal male. 

Hancock è perfettamente allocato sulla scia di questa trasformazione, ricoprendo in questo film il ruolo dell’ anti – supereroe riluttante e maldestro. Un vagabondo astioso, puzzolente, e quasi sempre ubriaco, come da stereotipo razzista del maschio afroamericano, inaffidabile e potenzialmente pericoloso  – ma niente paura,  il  cast di questo film vota tutto per Obama –  con berrettaccio di lana calato sulla fronte, barba lunga  e mise  lercio – grunge metropolitana. Come se non bastasse, è teorico del lavoro zero, quindi sordo e insensibile a tutte le  imperative sirene del Sogno Americano.  Intruppone come non mai, al punto che quando, seppur controvoglia, si adopera per soccorrere i Buoni, combina una tale teoria di catastrofi, da far riflettere se i danni derivati da effetti collaterali non siano più insidiosi del Pericolo da Scongiurare (e qui sorge il dubbio se sia questo o meno, un film sull’Iraq). Conseguenziale a tanta sottoproletaria sgradevolezza, è l’essere impopolare tra gli stessi cittadini che dovrebbe proteggere.A rompere la catena dei … salvo – nove – persone – ma – devo – nove milioni  per – danni – alla città – di – Los Angeles,  arriverà proprio uno dei miracolati che, scampato ad un incidente per provvidenziale supereroico intervento, sempre  a costo di distruzioni e crolli, si renderà disponibile – non a caso è un pubblicitario – a sostenere il disastrato eroe in una necessaria operazione di cambio d’immagine. Basteranno un soggiorno in prigione, una conferenza stampa, alcune – esilaranti – lezioni di bon ton e finalmente l’adozione di un abbigliamento più consono rappresentato da  regolamentare tuta in pelle ? La prevedibile  redenzione del maschio afroamericano come Hollywood comanda, è dietro l’angolo. Hancock terrà fede al suo essere bizzarro e fuori dagli schemi, fino in fondo? Chissà. (rivelare il misterioso finale sarebbe delittuoso ). Un Will Smith, finalmente liberato dall’essere leggenda o cercare felicità, al meglio delle sue performances.  Effetti speciali a gogò, forse con qualche eccedenza. Ancora una bella metafora leggera ed autoironica dello Stato in cui versa l’Unione . Mentre il mito dell’Indistruttibile crolla, forse è meglio limitare i danni  attraverso  un cambiamento a tutto tondo. E se questo cambiamento è incarnato da un uomo di colore, tanto meglio.

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Hancock è un film di Peter Berg. Con Will Smith, Charlize Theron, Jason Bateman, Eddie Marsan, Jae Head, David Mattey. Genere Azione, colore 92 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Sony Pictures –