…même chanson, même refrain (tra-la-la-la)

…même chanson, même refrain (tra-la-la-la)

 

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le cirque est plein c’est jour de fête,

le cirque est plein du haut en bas

les spectateurs perdant la tête,

s’interpellant à grand fracas

Carmen  Secondo atto.(Escamillo)

 

Grazie ai canali Arte e Classica – servirà pure a qualcosa il groviglio di fili e telecomandi in cui siamo impigliati di recente – abbiamo potuto ammirare la bella Carmen diretta da Daniel Boremboim e interpretata da Anita Rachvelishvili ma soprattutto apprezzare la coraggiosa regia di Emma Dante che accompagnata dal suo team ( scenografo direttrice delle luci, attori ) ha messo in scena la ribellione di un personaggio sin qui rappresentato semplicemente come stereotipo di trasgressiva sensualità.Accompagnata perennemente da tre prefiche e una bara, Carmen espone il destino di morte cui andrà coscientemente incontro proprio per ubbidire ad un indomabile istinto di libertà.

Bella ed efficace l’idea di rappresentare – come Emma Dante stessa ha specificato – un Sud dell’anima – dunque non Siviglia ne’ altri luoghi in particolare – ma un paese immaginario immerso in una pletora di simboli  e di chierichetti, in cui i costumi non hanno tempo e la superstizione si mescola alla religiosità.

Non stupisce che il loggione abbia fischiato proprio la regia, saranno anche palati fini in materia di musica  – sebbene anche questo cominci a rivelarsi un vecchio luogo comune – ma è un fatto che quanto a conservatorismo nessuno li batte. E se Carmen non va in scena con gran fragor di nacchere, vestita da zingara e con la rosa rossa tra i capelli serpentini, non è Carmen. E se Violetta non ha il vestito a fiori e il cappello di paglia nel secondo atto, non è Violetta. E se Turandot non reca un armamentario di cineseria  sul capo e non si sgola dalla cima di una scala chilometrica, non è Turandot.

Ma insomma. La vogliamo proprio ammazzare definitivamente quest’opera lirica? Se la musica è viva, deve continuare a vivere tra noi  e non sono certo  le modalità tradizionali che pure il meticoloso  Visconti detestava, a renderla attuale ed interessante. Se la messa in scena è differente dal consueto, significa che Carmen continua, dopo anni  a raccontarci qualcosa. Il lavoro di Emma Dante ne è la prova.

 

 

I’m not a man, I’m Eric Cantona ( e con la maglia numero sette)

I’m not a man, I’m Eric Cantona ( e con la maglia numero sette)

 Sarà che a Cannes la proiezione di Looking for Eric era prevista il giorno successivo a quella di Antichrist – splendido ma angosciante –  sarà che i film di  Ken Loach hanno tutti un che di vivificante, fatto è che dopo aver visto le peripezie del postino Eric assistito – e chi meglio di lui –  dal suo ange gardien  Eric, tutti si sono sentiti immediatamente meglio.

Sette mesi dopo, la sensazione rimane inalterata, dunque l’effetto von Trier non c’entrava. Antichirst resta il bel film che era e Il mio amico Eric oramai passato per le maglie del doppiaggio, conserva intatto il suo strepitoso piglio.

Ken Loach che ama il calcio quanto il cinema ed Eric Cantona ex attaccante del Manchester che ama il cinema – Pasolini è il suo regista preferito – quanto il calcio, tant’è che, finita la carriera, s’è  dedicato anima e cuore alla sua passione, interpretando o producendo film e idee brillanti.

Come questa bellissima favola  che originariamente doveva essere sul rapporto del Campione con i supporters e che passata per le mani di Loach e del fido Laverty, si è ampliata trasformandosi in un elogio della working class tifosa e solidale, oltre che, naturalmente, del calciatore Cantona, entrato a far parte a buon diritto negli annali della storia del calcio per le qualità atletiche, per l’affetto che i tifosi del Manchester United ancora gli portano e per aver preso a pedate nel sedere un tifoso che gli aveva dato dello sporco francese . Gesto  costatogli un anno di squalifica.

Il fatto è che  l’idea centrale del film è anche l’Idea del Gioco secondo Cantona il quale sostiene che la sua migliore azione in campo è stato non un goal,  ma un assist smarcante servito a  Ryan Giggs, a tutt’oggi, miracolosa ala sinistra dei Red Devils.  – Devi sempre fidarti dei tuoi compagni  – Conclude. E per essere più forti – chiosa Loach – bisogna stare uniti.

C’è qualcosa di Frank Capra – lo hanno notato tutti e anche per me è così – nella storia del portalettere in crisi depressiva da vita di merda, affetti dissipati figli allo sbando e guai incombenti. Tutto sembra precipitare, finché il suo idolo, appunto Cantona, una bella sera non scende giù  dal manifesto appeso in casa, e materializzatosi lo accompagna in un glorioso tragitto di risalita.

Capra, Cantona e Loach, tre geni al servizio di una storia che non è solo edificante ma che contiene una visione esatta della società inglese, che individua nel tifo una metafora della Comunità, sospingendo con molta discrezione lo spettatore verso riflessioni sul significato della condivisione.

Sceneggiatura brillante ed aforismi irresistibili. Visto e ri-visto. Adorabile.

 Il mio amico Eric è un film di Ken Loach del 2009, con Steve Evets, Eric Cantona, Stephanie Bishop, Gerard Kearns, Lucy-Jo Hudson, Stefan Gumbs, Matthew McNulty, Laura Ainsworth, Max Beesley, Kelly Bowland. Prodotto in Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia. Durata: 116 minuti. Distribuito in Italia da Bim Distribuzione

 

 

 

Dallo Shtelt al Minnesota il passo è (quasi) breve

Dallo Shtelt al Minnesota il passo è (quasi) breve

Comincia con una storiella finto yiddish ambientata in uno shtelt ottocentesco. Il  dibbuk – sorta di fantasma – scambiato per essere umano, diventa l’occasione di una diatriba tra coniugi. E  finisce con uno sbalorditivo avvertimento nei titoli di coda :

 Nessun ebreo è stato maltrattato durante la realizzazione di questo film.

Tra prologo ed epilogo, la riscrittura della storia di Giobbe, affascinante, iperbolica, triste – e assai saccheggiata da letteratura e cinema – metafora della condizione umana.

Una vicenda paradossale, bizzarra in cui s’ intrecciano;Torah, Jimi Hendrix, Bar Mizva, marijuana, traversie e Kaballà e che a tratti si perde – come è giusto che sia –  nei tradizionalmente fumosi ed irresistibili responsi dei diversi rabbi, interpellati a dirimere questioni, ovvero a mitigare i devastanti esiti della valanga di guai che travolge Larry Gopkink a serious men caparbiamente intenzionato, come ogni ebreo che si rispetti, a divenire mensch.

 Ma il Minnesota, patria dei Coen e di Larry,  è a distanze siderali da Manhattan e il versante surreale dello spirito ebraico, la raffinata ironia delle considerazioni filosofiche alle quali  ci ha abituato Woody Allen, facilmente sfuma nell’irriverenza di un humour nero che reca indelebile il marchio Coen.( e quello della commedia made in Israel, un cinema che purtroppo ci è dato di vedere raramente)

Siamo dunque ad un lavoro meno strombazzato di Burn after reading o di Non è un paese per vecchi, interpretato da attori bravi quanto sconosciuti. Ma non per questo meno efficace e divertente nella sua follia di mescolare menschenkeit e Jefferson Airplanes, Torah e Sidor Belarsky, di mettere in bocca ai rabbi i versi delle canzonette o di far apparire scritte in ebraico in luoghi inattesi. Oltre la rara capacità dei Coen di raccontare di sè e del proprio passato senza scivolare in operazioni nostalgiche, senza inciampare  in fastidiose radici che, particolarmente in questo caso, diventerebbero monumenti alla Noia Autoreferenziale.

A Serious Man è un film di Ethan Coen, Joel Coen del 2009, con Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Fred Melamed, Sari Lennick, Aaron Wolff, Jessica McManus, Peter Breitmayer, Brent Braunschweig, David Kang, Benjy Portnoe. Prodotto in USA. Durata: 105 minuti. Distribuito in Italia da Medusa

 

The color Purple ( No B – Day anch’io)

The color Purple ( No B – Day anch’io)

Ad andare mi ha convinto Bersani con le convergenze da stabilire prima e con i cappelli da metterci su. Avesse detto semplicemente che bisognava accordarsi o lasciare in pace i cittadini intenzionati a manifestare,mi sarei fermata a riflettere. Queste vecchie espressioni cominciano a sortire un effetto respingente. Bisognerà pur prendere atto dello sfinimento del militante di buona volontà al cospetto della solita zuppa.

Fino a quel momento solo qualche perplessità da definizioni mediatiche fastidiosamente ricorrenti, popolo di internet, dei bloggers, di facebook  – compagini nelle quali non mi riconosco per diversità di atteggiamenti mentali, stili di vita e linguaggi . Problema mio, beninteso  e per il fatto di scendere in piazza e chiedere le dimissioni del capo del governo, prerogativa che, a mio sommesso parere, rimane esclusiva del Parlamento e non della piazza.

Ciò detto e salvo qualche piccolo strafalcione, trovo lodevole la volontà degli organizzatori di dare vita ad una manifestazione spontanea – qualcuno malignamente direbbe spontaneista ma c’è in questo particolare tratto di alcuni movimenti un che di vitale e coraggioso che coinvolge e rafforza la voglia di partecipazione – e svincolata da qualsiasi convergenza, anticipata o postuma che dir si voglia.

Dunque non solo andrò perché mi sembra giusto dar voce al malessere ma perché trovo la parola d’ordine contro il berlusconismo e per una cultura della legalità e del rispetto, assolutamente condivisibile, nobile e degna di comparire nella migliore delle piazze.Tutto il resto dei pro e dei contro e dei distinguo di questi giorni, non voglio dire che sia noia ma quantomeno, al momento, non è importante.

 

 

In quale stato ( siamo)

In quale stato ( siamo)

 

Berlusconi elogia Lukashenko – una sorta di pezzo da museo, si potrebbe dire,  se non fosse vivo, verde e ancora in grado di combinare guai –  dopo aver incontrato nelle settimane precedenti l’amico Putin e  aver visitato il Turkmenistan e l’Arabia Saudita insieme a Tarak Ben Ammar. Di queste visite il cui denominatore comune sembra essere la legittimazione dei peggiori regimi dittatoriali, non è del tutto chiara la ragione, a meno di voler credere alle storie degli archivi del KGB o dei soggiorni in Italia dei ragazzini di Chernobyl. Ma, in assenza del premier, il dibattito nazionale è solitamente  concentrato altrove, vuoi sull’abolizione della pausa pranzo, vuoi  sull’ennesima trovata di Brunetta, vuoi sui motivi reconditi – mai nel merito – delle esternazioni di Fini.

Certo per uno che ha fatto dell’anticomunismo il tema forte delle sue campagne, è un bel salto l’apprezzamento del governo di Minsk. Come  lo sono, una volta rientrato a casa, le bacchettate alle riunioni di partito. Parole grosse, in qualche caso obsolete:  linea politica per esempio, si parla di chi ne è dentro e chi ne è fuori, nemmeno troppo velatamente, minacciando di espulsione questi ultimi. Con buona pace delle diverse anime e del partito plurale ed inclusivo. Appunto il partito delle libertà.

Ma essendo gli schemi saltati dal dì, nessuno fa caso alle mutazioni in atto. L’organizzazione di un partito, c’insegnavano, è lo specchio del tipo di governo che quello stesso partito vorrebbe realizzare. Non sono tra quelli che strillano con facilità alla dittatura o al regime ma i venticelli autoritari – anche l’ammirazione sperticata del Capo,  il consenso cieco, al limite della sottomissione, ne sono parte  –  che spirano intorno a qualsiasi,  iniziativa o dichiarazione  del partito al governo, risultano sempre più in armonia col progetto che, a ben vedere, non è semplicemente presidenzialista.

Prova ne è il nuovo –  che nuovo non è –  corso di Gianfranco Fini, uomo di destra seppur di una specie a cui non siamo abituati, il quale ribadisce da tempo che una repubblica presidenziale deve avvalersi di robusti contrappesi istituzionali di bilanciamento al potere del leader. Sottintendendo che per  un simile programma, qui da noi, bisognerebbe avere, oltre che il consenso, una volontà di rivoltare gli assetti, propedeutica ad una stagione di robuste riforme. Poi parla anche di rispetto per le istituzioni, ma questa è un’altra faccenda. Nell’un caso e nell’altro, non mi pare sia questa l’aria.

Essendo l ‘Ordinamento una specie di piramide in cui le norme al vertice producono i parametri per le sottostanti, il metodo invalso di piazzare rattoppi legislativi – in massima parte per contrastare le vicende giudiziarie del premier – può solo deteriorare situazioni già compromesse quando non incappare come pure è già successo nel rischio anticostituzionale.

La fretta di soccorrere problemi gravi ed urgentissimi – e qualcuno lo è davvero – non c’entra. Presi uno per uno questi provvedimenti, hanno il solo scopo di distruggere il nostro sistema di garanzie ed un unico leit motiv : fare carta straccia della separazione dei poteri e del principio di uguaglianza . Dalla separazione delle carriere, al processo breve passando per un tentativo strafalcione di ripristinare l’Immunità senza osservare i passaggi previsti. Ha ragione Fini a non riconoscere nella politica del governo i tratti della sbandierata, all’epoca della fondazione del PDL, cultura liberale.

Così, mentre restiamo in attesa di conoscere quale sarà la percentuale di processi che andrebbero al macero, se venisse approvata la nuova legge – dall’ uno del Guardasigilli al quaranta per cento dell’ANM e altri, non è una forbice, è la spaccata in aria di Margot Fontayn -, la settimana giudiziaria, giammai politica, del premier scorre tra la condanna al versamento di una fidejussione a garanzia dell’eventuale pagamento CIR, alla ripresa del processo Mills, all’attesa delle dichiarazioni in aula di un pentito di mafia.

Anche a voler considerare tutto ciò una persecuzione, dunque ammettendo come sacrosanto il diritto di difendersi dal processo, tutto gli sarebbe consentito fuori che di farsi le leggi ad hoc. Ma lui, a sorpresa,  sceglie d’intraprendere un ulteriore viaggio – mistero.

Panama, quella del canale e dei cappelli intrecciati con le foglie di  palma nana, è la suggestiva destinazione. Dato il calendario d’impegni che si lascia dietro, vedo remota l’ipotesi che si possa sentirne la mancanza. Ma siccome è l’ennesima boutade,  che buon pro gli faccia egualmente, ovunque si trovi.