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Respiro impresa

Respiro impresa

La malattia del paese è la bassa crescita ma l’occasione – un esecutivo con una solida maggioranza e un’opposizione dialogante – è irripetibile e pertanto non bisogna lasciarsi sfuggire  l’opportunità di liberare le imprese dall’oppressione fiscale, da quella burocratica e  – come ti sbagli ? -  anche da quella giudiziaria. Emma Marcegaglia è stata molto deludente, da lei, così capace, fiera e concreta si sperava arrivasse un segnale di maggiore autonomia e invece la sua modalità di donna alla guida della Confindustria risulta complessivamente  indebolita, soprattutto  per il gioco di specchi che il discorso tenuto all’assemblea annuale di ieri,  ingaggia col Programma di Governo, dal capo del quale, non a caso,  riceve alla fine,  appalusi e abbracci. Qualcuno ha scritto che è stata arrogante, che a ognuno ha consegnato un compito e ad ognuno ha assegnato un voto . Magari. Invece niente, adattando il suo disegno a quello del Governo ha compiuto esattamente l’operazione contraria : gran docilità, nella richiesta costante dell’investitura ufficiale. Come se non fossero stati sufficienti i consensi plebiscitari che l’hanno portata alla Presidenza.  Quanto al merito, non che ci si aspettasse qualcosa di diverso da una visione del mondo  marcatamente liberista, attribuire però, le responsabilità della scarsa crescita ad un sistema che va sicuramente riformato e alleggerito ma che sottende una serie di garanzie per i lavoratori e la collettività, significa banalizzare, e di molto, l’analisi. Insomma a sentir lei, Marcegaglia, le imprese di questo andamento poco brillante dell’ economia hanno responsabilità sfumate , nemmeno quelle di amare, per esempio, i mercati protetti, le agevolazioni, gli aiuti statali, l’essere in certi casi poco versati al rispetto delle regole ed infine mancare di coraggio negli investimenti per formazione e ricerca. Il prosieguo è in tono e realizza una specie di crescendo rossiniano :  ridefinire  i rapporti industriali oramai obsoleti, indicizzare le pensioni all’attesa di vita liberando risorse per il lavoro delle donne e dei giovani e i salari alla produttività, rivedere contratto collettivo nazionale e regole del mercato del lavoro puntando sulla flexicurity. Per realizzare ciò, mano tesa al sindacato nella stagione che vede il superamento della contraddizione tra capitale e lavoro. Certo che se però è l’impresa e non lo sviluppo, il fine ultimo di tutta questa nuova stagione di concordia, se agl’impenditori prospererà sotto agli occhi il fatturato e ai  lavoratori non rimarrà che la flexsecurity, sarà difficile archiviare del tutto l’aborrito conflitto. Il resto va, nella noia dello smantellamento delle municipalizzate, dei costi della politica da abbattere e di rifritture varie: dai pantaloni Fendi ai grazie a mammà e papà imprenditori  – se non si è discepole inappuntabili, si è figlie, non si scappa –  per la formazione ricevuta e per averle consentito di respirare Impresa fin dai primi anni di vita. Il fatto, ahimè, è che con i suoi discorsi, anche i presenti, respirando, hanno sentito lo stesso odore .

 

L’aria che tirerà ( chez Lucia)

L’aria che tirerà ( chez Lucia)

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Dice Tremonti – e la digressione è stata cento volte più interessante dell’annunciata querelle extragettito si, no, forse, all’interno del programma televisivo in mezz’ora – che la sinistra non è vicina alla gente. Veramente non lo dice solo Tremonti, sono in molti a sostenerlo.Un progressivo scollamento dall’elettorato tradizionale è in atto già da qualche anno sebbene, sottoforma di quesito ricorrente – come essere vicini alla gente – la sinistra si sia posta a più riprese ed anche in sedi autorevoli,  la questione di come articolare la sua presenza nella società. Diciamo da quando la crisi della partecipazione alla vita politica ha cominciato a funzionare un po’ come la crisi delle vocazioni, una contribuiva a svuotare i conventi, l’altra le strutture territoriali. Il partito leggero al quale molte colpe, in tal senso, si vogliono attribuire, più che una scelta, ha rappresentato una necessità derivante da una presa d’atto iniziata già dai tempi del PCI . Certo si sarebbe potuto fare di più, stringendo alleanze con l’Associazionismo o patti più funzionali tra gli eletti nelle amministrazioni locali e i cittadini, per esempio. Le circostanze in cui simili relazioni si sono attivate, hanno prodotto risultati importanti ma è pur vero che la temperie del riflusso nel privato ha favorito l’insorgenza di spinte individualistiche inconciliabili con le istanze del sociale. Difficile contrastare un fenomeno che investe settori che vanno ben oltre  la politica. Miglior gioco ha invece avuto la destra nel cavalcare il disagio che occasionalmente si esprime a livello locale  su specifici problemi. Ma in quel caso è l’approccio di sinistra a non essere  popolare e vicino alla gente . Non sono da disprezzare problemi che investono la vita dei cittadini ma non c’è risoluzione al disagio, in una società complessa, che non importi il mettere le mani in un sistema di connessioni di dati derivanti da altri sistemi :  industriale – economico, politico globale e locale, sociale con gli indicatori sulla oggettiva e soggettiva qualità della vita e così via. Non è un caso che nel momento in cui tali considerazioni vengano poste ai barricaderi del Nimby, la sensazione di distanza si accentui. Lo stesso vale per i temi definiti dell’allarme sociale anche nel caso in cui il senso d’insicurezza derivi da reali inconvenienti e non da predisposte campagne mediatiche. Si possono non demonizzare le ronde, considerarle per dirla con D’Avanzo una  misura di tutela delle comunità smarrite e disgregate ma poi la Politica deve trovare soluzioni ai problemi in ambito istituzionale, non delegando ai cittadini funzioni di polizia. Tra qualche giorno Maroni presenterà una serie di provvedimenti su Immigrazione e Criminalità  la cui piena attuazione – ammessa che sia quella la strada –  richiederebbe un sistema giudiziario più efficiente, più strutture detentive, più centri di accoglienza, una diversa legislazione europea e in qualche caso anche un’altra Costituzione Repubblicana oltre che la cancellazione di Schenger. Eppure questo pacchetto che è di puro impatto mediatico, obbedisce ai desideri di coloro ai quali la sinistra non riesce ad essere vicina semplicemente perchè tende a concepire il governo dei processi in altri termini. Diciamo che per Tremonti and co, lasciando in pace Gramsci, pur convocato in soccorso delle tesi sull’anacronismo della sinistra,  è facile essere vicino alla gente dispondendo di un sistema d’Informazione che pur non orientando direttamente il voto, definisce sin nei minimi particolari, spesso costruendoli, quali siano i connotati del  mondo in cui viviamo e lo fa con gran dispiego di mezzi, non solo attraverso le campagne di stampa, i telegiornali o i talk show  ma destinando all’uopo, l’intero palinsesto, le fiction e i mille programmi d’intrattenimento, quiz della speranza compresi. Determinato il clima, non è difficile inventare la misura salvifica da diramare sottoforma di spot. Se l’aria che tira è questa, e a quanto sembra non riguarda solo la sinistra italiana ma la sinistra europea più  o meno al completo, non sarà cosa di poco conto invertire la tendenza. Forse aveva ragione Pintor a dire che la sinistra è finita. E probabilmente questa incapacità di affermare le proprie pur dignitosissime soluzioni altro non è se non un segnale d’invariabile declino.

Il ritorno del Fenomeno®

Il ritorno del Fenomeno®

L’informazione, supporto naturale ed insostituibile veicolo di tutte le campagne securitarie del mondo, racconta di città indifese, esposte, a seconda dei casi, ai rischi di una criminalità o di un terrorismo dilaganti e fuori controllo. Soffiando sul fuoco della paura, invocando misure straordinarie, costruisce consensi e prepara il terreno sul quale prospera la fortuna politica di forze conservatrici, quando non reazionarie.Ma non solo. In Italia, di recente,  l’informazione si è anche molto adoperata a raccontare un Paese che non c’è. Una stortura evidenziatasi durante la recente campagna elettorale, periodo durante il quale, nessuno,  dal commentatore più autorevole al politologo più raffinato, è riuscito ad intuire quel che sarebbe realmente accaduto. Una vittoria di misura del centro destra è stata sì annunciata insieme ad una vasta gamma di considerazioni sulle ricadute che un eventuale pareggio tra le principali forze in campo,  avrebbe prodotto. Nessun’altra variabile però, men che meno, la possibilità che un riesplodere dei consensi alla Lega potesse rimettere in gioco gli esiti previsti. La Lega è il vero fenomeno di queste consultazioni. Eppure il Carroccio tutto è fuori che una forza politica dedita ad un lavoro sotterraneo, impercettibile. Pontedilegno, le ampolle con l’acqua del Po, le ronde, Pontida, sono comparsi sugli schermi televisivi e sulla carta stampata, additati però alla nostra attenzione come i tratti di una folcloristica anomalia. Quasi innocua, nella rappresentazione che ci è stata tramandata di un’espressione politica territoriale dai tratti talvolta ingenui, talvolta beceri. Poche voci a rammentarci gli esiti devastanti che le t – shirt di Calderoli hanno prodotto davanti ad una nostra ambasciata all’estero appena qualche tempo fa, ma poche anche quelle che si sono incaricate d’indagare sulla forte connotazione popolare dell’adesione a certe formule xenofobe. Il nostro immaginario è stato dirottato sulle ampolle del Po. Ma questo vuol essere solo uno dei tanti esempi , un altro fuori casa nostra,  potrebbe essere rappresentato dai Rifiuti che secondo la stampa asiatica sommergono non solo Napoli ma l’intera Europa o dalla città di Roma che, grazie alle strumentalizzazioni della recente campagna elettorale è divenuta improvvisamente omologa a quella di Mogadiscio. Produzione di opinioni a mezzo di opinioni: l’informazione e la comunicazione funzionano così. La nostra percezione del presente soggiace ad un grande dispositivo massmediale che con buona pace della moltiplicazione di fonti, notizie e commenti che continuamente produce, rilascia pochissimi elementi originali alla comprensione dell’attualità. L’attenzione allo scarto e alla differenza, necessaria al pensiero per individuare i varchi del cambiamento possibile, mal si concilia con il dispositivo della ripetizione cui tutto il sistema dei media è improntato. E l’ascolto di soggetti ed esperienze che restano ai margini dell’ordine del discorso dominante, viene anch’esso depotenziato da un sistema della comunicazione che accende e spegne i riflettori sulle voci fuori dal coro, a caso, un giorno sì e cinque no, una testimonianza oggi e l’oblio quasi sempre, un’apparizione in tv, un trafiletto sulla stampa a piccolo risarcimento dell’assenza destinata dal mercato economico e politico delle merci e delle idee. Mai la censura è stata così potente come nella società dei media che tutto dice e tutto fa vedere. Mai l’invisibile e l’indicibile di un’epoca sono stati così estesi come nell’epoca della massima visibilità e dicibilità: è questo il paradosso che rende insieme più possibile e più arduo decifrare il tempo presente. Non per questo possiamo desistere: è sbagliato cedere alle derive apocalittiche del discorso sui massmedia di cui è costellato il pensiero critico del novecento,  è sulla moltiplicazione, non sulla riduzione dell’informazione e della comunicazione che le strategie di resistenza devono comunque puntare. Significa , quanto alla comprensione del presente, che non dobbiamo mai cessare di interrogarci su quello che vediamo e su come ce lo fanno vedere ma anche su quello che non vediamo perché nessuno ce lo fa vedere. Su quello – sempre più – che è consentito dire, e su quello che non è consentito dire e resta censurato e ancor più, su quello che non serve censurare perché proprio il regime della dicibilità di tutto rende tutto equivalente e privo di senso. Che cosa va perduto di ciascuna esperienza e di ciascuna differenza nel gigantesco dispositivo della traduzione linguistica che consente la comunicazione globale? Quante pratiche di resistenza al potere riesce a nascondere e a depotenziare il potere? Sono domande che dovremmo prendere l’abitudine di farci ogni volta che sfogliamo un giornale o guardiamo un tg. E la patinata impaginazione del presente che ogni mezz’ora viene approntata per ricondurlo forzosamente nelle compatibilità dell’ordine del discorso ci apparirebbe subito per com’è, piena di buchi e di strappi e di paradossi, altrettanti varchi in cui infilarsi per sovvertirlo o, quantomeno, ostacolarne l’onnipotente pretesa. Il Fenomeno®, comico, comunicatore, agitatore  di piazze più o meno telematiche,  tutt’altro che immune da sospetti  di manipolazione,  sarà in piazza domani a Torino sul tema dell’Informazione e del delicato rapporto tra giornalismo e potere. Non un tema da poco. Tra le proposte della sua nuova campagna, l’abolizione del contributo statale alla carta stampata. Una tendenza iperliberista vorrebbe che i giornali affidassero i propri destini esclusivamente al mercato e alla libera concorrenza, come è delle merci. Varrebbe la pena, una volta tanto, di riflettere sulla scorta di qualche opportuno distinguo e, eliminate le anomalie di quella legge che col metodo del finanziamento a pioggia, consente uno spreco di denaro pubblico  per soccorre testate inesistenti o confortarne altre in ottimo stato di salute, chiedere piuttosto che siano fissati criteri certi per continuare a sostenere esperienze editoriali  che non potendo o non volendo vantare proprietari eccellenti – grandi gruppi o banche – ovvero essendo poco inclini a raccolte pubblicitarie sconsiderate, cadrebbero vittime, proprio per quanto sopra detto ,  del loro stesso essere indipendenti voci fuori dal coro. I giornali sono troppi – dicono –  e la qualità dell’informazione è sempre più rara – principio da far valere indipendentemente dalla quantità – ma, ci mancherebbe altro, che un discorso di moralizzazione ed indipendenza dell’informazione, falcidiasse proprio quelle esperienze che negli anni sono state, in tal senso,  più significative. Non tutto può viaggiare sulla Rete che sarà anche libera e gratuita e grandemente esaltata dai supporters come insostituibile occasione democratica di informazione e confronto , ma che ha dimostrato, dimostra e dimostrerà sempre, l’imprescindibile esigenza di essere comunque assistiti da quel senso critico e da quell’interrogarsi sulle cose che sta alla base di ogni etica e di ogni libertà.

 

Strategy games ( ma la gazzella è sola)

Strategy games ( ma la gazzella è sola)

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Il più giovane prigioniero politico del mondo si chiama Guendum  Tcheukyi Nyima , la sua unica colpa è di essere stato nominato undicesimo Panchen Lama, seconda carica spirituale nella gerarchia del buddismo tibetano, com’è nelle tradizioni , dal Dalai Lama in persona. Pechino, in quell’occasione, ha designato al medesimo ufficio  un altro bambino tibetano, Gyasten Norpo. Una delle tante circostanze in cui è racchiuso il  senso dell’espressione genocidio culturale, usata a proposito degli ultimi episodi di violenza a Lhasa. C’è un fondo di verità in quel che si sostiene a Pechino e cioè che la Cina abbia  introdotto in Tibet infrastrutture moderne e favorito maggior benessere. Più volte lo stesso Dalai Lama che, per fortuna, è un leader spirituale al quale non fa difetto una precisa impostazione laica, quando si tratta d’intervenire in merito al futuro del suo paese,  ha sottolineato come quella regione non potrebbe  avere mezzi per svilupparsi senza il sostegno di Pechino.Tuttavia gravissime  e continuate violazioni dei diritti umani segnano duramente l’esistenza del popolo tibetano particolarmente per la linea dura del capo del partito comunista locale Zhang Quinli  che dal 2005 ha reintrodotto antiche limitazioni ,imposto agli studenti e ai dipendenti pubblici il divieto di partecipare a manifestazioni religiose e chiesto ai monasteri d’ impartire più “educazione patriottica” . Di fatto, una delegittimazione continua del Dalai Lama come guida spirituale del Tibet, contraddistingue la strategia di Pechino. Oggi, a fronte dell’ossessione cinese per l’economia, in gioco sono la sopravvivenza della cultura e dell’identità tibetana che rischia di restare appannaggio della religione e di un folklore promosso ad uso e consumo del turismo internazionale. I giochi olimpici di Pechino e il transito della fiaccola attraverso il Tibet, sono un’occasione irripetibile per porre al centro dell’attenzione il problema della violazione dei diritti fondamentali . Monaci buddisti  e gruppi di giovani ribelli hanno protestato contro il governo con un’ aggressività che, seppur nettamente inferiore a quella della polizia,  ha sfidato il principio della non violenza  da sempre predicato dal Dalai Lama . Ma la pacifica Via di Mezzo  avrebbe bisogno di una salda sponda internazionale per continuare ad essere accolta dai tibetani come l’unica strada possibile per l’emancipazione ed i diritti umani. Senza la pressione internazionale sulla Cina, prevarrebbe la tendenza suicida, a cedere ad istanze indipendentiste. In Tibet sono insediati otto milioni di cinesi contro una popolazione locale che ne conta appena sette e Pechino non ha esita quando è necessario a chiamare alla guerra di popolo contro i separatisti. Il boom economico non è servito ad ottenere la fiducia dei tibetani ma un ritorno alla povertà precipiterebbe il paese in condizioni peggiori di quelle attuali. Difficile per l’Occidente affrontare efficacemente un paese, la Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, potenza economica influente con un  notevole peso geopolitico , così i governi occidentali si limitano ad esortare Pechino alla moderazione,una reazione ridicola agli occhi dei numerosi sostenitori della causa tibetana.  Il rischio è che fino ai giochi olimpici manifestazioni di protesta, repressione e sostanziale impotenza occidentale generino una situazione di cui farà invariabilmente le spese il popolo tibetano.Impossibile, al momento , prevedere la possibilità  che la gazzella abbia la meglio sulla tigre.

tibet

Quante storie…( se otto milioni vi sembran pochi )

Quante storie…( se otto milioni vi sembran pochi )

tricarico

Primum Auditel . Ma non avendo ancora imparato a coniugare la qualità con il box office, si rimane nella terra di nessuno con un contenitore ibrido, non dissimile da quelli che la televisione somministra abitualmente. Con la bionda e con la mora, rintanate nei rispettivi ruoli, che convivono col fischio di De Andrè, la coreografia di Gino Landi  con i licenziati e le mise di Ferrè (negli unici due abiti della collezione in cui cita Capucci) con i precari, più una valanga di messaggi edificanti, una consistente dose di luoghi comuni vecchi e di ultimissimo conio e molti spot . Niente di male, in fondo il potpourri apparentemente sconclusionato è la ricetta che sta alla base di Blob, ma in quel caso  il motore è la satira e il filo conduttore un montaggio fortemente allusivo.Qui invece ci si prende sul serio . Ad ogni buon conto  per essere uno spettacolo che poggia su una formula antiquata  e che nonostante tutti gli sforzi e gli ammicchi, si destina ogni anno di più, ad un pubblico anzianotto, gli otto milioni di telespettatori  che diventano dieci, quando l’Irregolare si ammanetta per cantare fuori concorso,non sono poi una gran tragedia.Raccolta pubblicitaria stimata in quaranta milioni , da ricontrattare o compensare per il futuro, a parte La televisione generalista è morta (da un bel pezzo) come ci viene ripetuto , ma non sarà il Festival a seppellirla definitivamente. In tutto questo, la musica si comporta come può, perso il suo ruolo centrale, procede per conto proprio, qualche lampo, qualche caduta ,un po’ di premi. Al solito. Salvo che in televisione la ripetitività uccide più che altrove, tra una settimana tutto sarà dimenticato così si potrà procedere a designare il prossimo innovatore o a confermare chi già c’è ( è indifferente). A meno che non si voglia cominciare a falcidiare dalla prima fila, giù in platea ( non sarebbe indifferente).