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Navtej

Navtej

La categoria Cattivo suonerebbe impropria e sinistra già  nelle dichiarazioni di un politico qualsiasi, figuriamoci in quelle di un ministro all’indomani di un’aggressione e questo anche se i possibili destinatari delle cattiverie  istituzionali dovessero – come si è affrettato a spiegare Maroni –  essere gl’immigrati clandestini, uno status che non implica automaticamente l’appartenenza ad una fattispecie criminale. Atteso che, seppure fosse, severo, resta un’ espressione del vocabolario  più adatta a definire dignitosamente un atteggiamento governativo.

Certo nell’enfasi  – di lisciare il pelo alle masse oramai versate ad applaudire il linciaggio dello straniero –  la parola grossa scappa. Anche se miglior  fabbrica di clandestinità della legge Bossi Fini, non fu mai vista. Così ben orchestrata da sospingere  in condizione d’irregolarità anche i possessori di permesso di soggiorno o da impedire con ogni forza che lavoratori –  nei cantieri, nei campi, come in molte delle nostre case – guadagnino la dignità di un’esistenza  alla luce del sole, per se stessi e per la collettività, costretta con ciò, a sopportare i guasti del cosiddetto sommerso.

Ma il ministro reclama cattiveria. Perché la bontà –  modulo le espressioni attestandomi sulla linea delle nuove  frontiere del linguaggio – a suo dire, produce immigrazione incontrollata e l’immigrazione disturba la quiete dei cittadini perbene. Ovvio che poi il disappunto di costoro,  generi episodi d’intolleranza.

Ma tra le pieghe di una vicenda  che ci affrettiamo a non definire razzista, che vogliamo per forza catalogare come  l’esito di  un disagio giovanile diffuso o della cattiva educazione che genera individui annoiati e privi di valori, spunta  invece  la piccola storia di Navtej che ha perso il lavoro entrando, grazie ai buoni uffici della Bossi Fini , a far parte della schiera dei clandestini, quindi dei senza tetto,  che è stato mandato via dalla meno pericolosa Stazione Termini, perché il sindaco di una grande città, campione di Scaricabarile, Chi la spara più grossa e Fatti più in là, pretende ordine e pulizia nel suo territorio e che  infine, approdato in un posto qualsiasi, è stato malmenato cosparso di benzina ed incendiato da un gruppo di disgraziati che non aveva di meglio da fare che prendersela con chi è socialmente percepito come un niente, un mucchio di stracci abbandonato in stazione. Nemmeno un essere umano. Navtej, del resto, mica è un ragazzo, è un marocchino, chiosano irridenti gli amici dei presunti criminali. Dio mio, che giovanile disagio. E che mancanza di valori.

Ma perchè, la legge, le istituzioni, hanno saputo fare di meglio degli aggressori?

Non c’è passaggio che chiunque definirebbe a rischio, negli ultimissimi avvenimenti della  vita di Navtej, così come ci è stata raccontata,  che avrebbe potuto essere evitato, se solo questo paese avesse Istituzioni funzionanti. Ne’ buone ne’ cattive : solo efficienti. Rispondenti ad un disegno. Uno qualsiasi. Ma che tale sia . Dirò una cosa enorme : persino l’orribile istituto  dell’ espulsione senza fondato motivo, sarebbe stata meglio del fuoco. Nemmeno le ipotesi scellerate sulle quali costruiscono il consenso, riescono a mettere a punto, i nostri governanti buoni.

Leggi, servizi sociali, forze dell’ordine, associazioni di volontariato… niente e nessuno è stato in grado di evitare il peggio. Credo che con Navtej e con quelli come lui, noi siamo già abbastanza  cattivi per poter immaginare di diventarlo ulteriormente. Oltre c’è solo la violenza. Ma anche quella già viene praticata da tempo.

De Andrè vive

De Andrè vive

Deandrevivo
Dire di Fabrizio de Andrè all’epoca delle celebrazioni nel decennale della scomparsa, è l’impresa che è.
Poichè tutto è stato scritto, cantato, filmato, mostrato in mille iniziative, libri e trasmissioni, il senso delle cose rischia di sfumare nella ripetitività, il valore artistico nella mitizzazione, lo spessore civile ed umano
nel racconto di episodi spezzettati  e scollati dalla  coerenza del tracciato biografico.
Riti funebri, in qualche caso, che mal si addicono alla vitalità intrinseca di un’Opera che sembra invece fatta per durare alimentando altre opere, altre riflessioni. Col tempo tuttavia, s’impara a leggere nell’entusiamo inspiegabile di chi  era troppo giovane per apprezzare la sua musica, un tratto di affetto piuttosto singolare, per quello che in definitiva, è un cantante del passato. Anche in certa venerazione da vecchi fans, patiti dei ricordi, sopravvive nonostante gli sguardi perennemente rivolti all’indietro, lo stesso tratto di autentico sentimento.

De Andrè è vivo ( e resiste al processo di beatificazione). E’ scritto con due esclamativi su di un muro assai fotografato, con A anarchica cerchiata, griffe e insieme omaggio all’ Ideale di sempre.
E dunque, se così è, celebriamolo da vivo.

In questi giorni  per esempio,  è quasi impossibile non pensare a Sidùn – Sidone – rappresentata come un uomo arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato e questo accade per la stessa ragione per cui tempo addietro in occasione di alcune poco brillanti iniziative del governo, venivano alla  mente Korakhanè, Bocca di Rosa o Princesa.

Non tanto per loro, i personaggi, quanto per l’inalterato clima di sotterranea  o esplicita violenza che ancora avvolge le storie degli ultimi, dei diversi. Violenza dei provvedimenti, di sicuro –  dunque emanazione diretta del Potere –  che però interpreta un comune sentire al quale andrebbero assimilati  i molti ma e se di Insospettabili, che nel corso del tempo sono andati ad ingrossare le fila di maggioranze non più silenziose.

Non serve pertanto nell’esercizio vagamente  necrofilo del cosa avrebbe detto, interrogare chi purtroppo non è più. Ne’ esaltarne – altro tic – le capacità profetiche. Piuttosto prendere atto che collocarsi dal lato opposto a quello da cui spira il vento, rappresenta non solo un’occasione di riscatto, ma consente un punto di osservazione che io definirei alla giusta – ancorchè non prudenziale –  distanza, mai eccessiva da esimersi di cantare l’astio e il malcontento, ne’ troppo ravvicinata ad evitare contaminazioni che depotenzino e asserviscano il canto.

Solo questa postazione probabilmente, consente di guardare oltre i singoli episodi, le dinamiche spicciole. Non il prevedere dunque, dei maghi, dei santoni o dei profeti, ma il semplice vedere possedendo nel contempo il generoso talento di saper mostrare agli altri.
In aggiunta, le molte lezioni impartite senza averne mai l’aria,  tutte derivanti però da un’ unica radice : il pensiero libertario.
Resistente ai cedimenti dell’ideologia, dilagante  dalla prima canzone fino all’ultima e nella scelta mirata dei brani di altri autori da tradurre, adattare, riportare a nuovi significati. La vera spina dorsale di tutta la sua produzione è in quella Idea.
Fabrizio De Andrè si è insinuato nel nostro modo di pensare prima ancora di essere parte dei nostro bagaglio sentimentale, anche per questo il piombo fuso di Gaza ci riporta al dramma di Sidone...euggi di surdatti chen arraggë cu’a scciûmma a a bucca cacciuéi de baëa scurrï a gente cumme selvaggin-a finch’u sangue sarvaegu nu gh’à smurtau a qué

e alla breve chiacchierata che accompagnava l’esecuzione del brano nei suoi concerti :

La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.

Sono anch’io tra quelli che gli vogliono bene. Mille anni e mille anni ancora

 


Reset

Reset

Alexis Grecia

Questa idea balzana che qualcosa stia davvero per concludersi e cominci una nuova fase è ovviamente data da una generale esigenza di reset. Consegnando alla posterità un’economia mondiale al collasso, un dato di diseguaglianza sociale ai picchi storici e guerre sempre più brutali combattute su diversi fronti per la gloria di un qualche Impero, oltre che un clima planetario fuori controllo, è facile cedere alla tentazione di  rimuovere il tutto,  magari nell’illusione tutta mitcheliana che domani sia davvero un altro giorno.

Al cospetto del disastro, quel che accade in casa nostra, potrebbe sembrare robetta. Così non è, vuoi perchè di quel disastro siamo parte, vuoi perchè le nostre specifiche condizioni sociali, economiche, culturali  ed istituzionali, particolarmente arretrate, acuiscono gli esiti del terremoto. Noi siamo indietro su quasi tutto. La nostra capacità di recupero è dunque  destinata a risentire di parecchi endemici svantaggi.

Così mentre negli Stati Uniti già da un anno ci si prepara ad affrontare il peggio ponendo a capo del paese, l’incarnazione dell’inversione di tendenza, noi ci dibattiamo tra ricettine e pannicelli caldi, un giorno detassiamo gli straordinari e un giorno proponiamo la settimana corta.

Non c’è di che essere Profeti di Sventura o specularmente Grandi Ottimisti, mestieri redditizi presso piccole e grandi comunità di fedeli inclini alla piaggeria per assoluta mancanza di scopo nella vita, ma egualmente rispettabili ad un unica condizione : che al termine di ogni oscuro presagio, di ogni invito a credere nel Futuro, ciascuno s’impegni a fare la propria parte. Cosa che non avviene quasi mai, sclerotizzati come sono nei rispettivi ruoli, occupati chi a scrutare l’avanzata della merda che ci sommergerà, brandendo al più lo spadone dell’ io l’avevo detto  – autocitazione, link, applausi dall’ormai decimato  pubblico, bravò, bravò, graziè  -  chi a dar fondo a tutto il repertorio di bicchieri mezzi pieni, di rifiuti di Napoli smaterializzati, di uffici pubblici a organico completo, completissimo, tra un po’ scoppiano o di antiestetiche prostitute mandate a lavorare un po’ più in là.

Il pessimismo a buon mercato, quello  senza sofferenza come l’ottimismo modello precotto, quello senza gioia,   sono una rendita di posizione, giustificano l’immobilismo, ne celebrano a scena aperta le virtù. Se tutto è inutile, se nessuno mi rappresenta, se il resto del mondo è incolto, corrotto…ovvero se i problemi si stanno risolvendo, se infine è arrivato chi decide, se siamo un popolo meraviglioso – i superlativi sono d’obbligo – che infine se l’è sempre cavata… a che serve muoversi, agire, partecipare ?

Del resto nella inesistente reattività ovvero nello scarto che c’è tra la scelta accurata di espressioni disperanti o entusiastiche e la reale capacità di scalfire ciò che ci circonda, c’è molto del fallimento di qualsiasi ipotesi di reale contrasto alla merda in avanzata.

Chissà dove vivono costoro e chi sono davvero. Di sicuro in luoghi tranquilli, al riparo da una realtà che se  gli mordesse  davvero  il culo, procurerebbe loro più rabbia e scatti d’orgoglio e meno facili profezie o entusiasmi, che tanto s’è capito, la razza sempre quella è.

La razza di coloro i quali vedono i cambiamenti come il fumo agli occhi o nel migliore dei casi come un mutar di scene e costumi, mai di copione. Cambiare vuol dire fare in modo che niente sia come prima, senza alibi o remore di bambini e acqua sporca, di tradizioni comunque da preservare, di identità o radici alle quali restare abbarbicati. Cambiare è chiudere con il passato.

L’anno finisce con Alexis Grigoropulos, con le proteste del Politecnico di Atene e delle Università italiane. Finisce con l’apprezzamento e il rispetto  per la volontà determinata di questi movimenti di non somigliare ad altri :  ne’ a quelli di Seattle, ne’ alle rivolte degli anni ’60 e, indietro nel tempo, nemmeno a quelli del Barrio Chino di Barcellona degli anni ’30, ne’ a quelle fine ottocento di Montmartre. 

Nessuna parola d’ordine speranzosa, nessuna  soluzione ottimistica. La Crisi e la Paura campeggiano negli slogan, dunque è sospesa anche la speranza in un possibile altro mondo. Derubati del futuro  come da definizione unanime, si comportano di conseguenza. Tuttavia determinati a contare ad esserci, senza cupezze.

Sentirsi responsabili di quel che sta loro capitando, per noi, è il minimo. Cercare di limitare i danni, doveroso. A partire dall’ anno che Alexis non vedrà.

 

Qui ( tutto il meglio è già qui )

Qui ( tutto il meglio è già qui )

Mia zia ultraottantenne gioca a canasta o a ramino al mercoledì con alcune sue ex compagne di collegio. Ad altre, sparse in varie città,telefona o  scrive vere lettere con busta e francobollo. In queste occasioni apparentemente futili e ripetitive – siamo in pieno zibibbo al lampo che fu – è nascosto il segreto del non perdersi di vista.

Mio padre, per lo stesso motivo,  vede con regolarità e organizza viaggi con gli amici di sempre. E anch’ io, ho cercato nel tempo di preservare le storiche amicizie dalle difficoltà della vita in continua evoluzione : menage pazzesco, trasferimenti, professione totalizzante, figli da crescere, consorti e fidanzati accentratori. La relazione continuativa con un amico storico è un investimento che fa bene alla vita. Non organizzo tavoli da gioco a cadenza fissa – me ne manca il tempo –  ma avere tra i piedi  gente degli antichi giri, mi piace. Succede con gli amici quel che accade con i grandi amori : un cenno d’intesa e ti senti subito a casa. Senza tante storie.

Mentre le rimpatriate con vecchie conoscenze, dopo secoli di allontanamento sanno sempre un po’ di ufficio funebre, di passato che si è lasciato archiviare senza resistere e che forzatamente ritorna. Per cui la possibilità di ritrovare i compagni di studi che mi offre Facebook mi fa venire l’ittero. Tutto il meglio è già qui, come diceva quello, il resto appartenendo all’irrilevanza o allo Sciocchezzaio, l’ho mollato. Vade retro.

Il Manifesto dal suo sito nuovo di pacca, promuove il dibattito sull’utilità della comunicazione politica in rete e in particolare su Facebook. Dai blog in contemporanea si levano voci preoccupate, pare che il nuovo gioco sottragga accessi e commentatori ai siti dei diari personali. Tutti in ansia. Chi per le sorti dell’impegno politico,  chi per quelle della diminuita popolarità dei propri spazi di scrittura .

Ma nell’ipotesi fondata che l’aria che tira richieda articolazione del pensiero e dunque del linguaggio, piuttosto che la rovinosa contrazione di entrambi , approfondimenti piuttosto che spot, esame delle complicanze piuttosto che elogio della semplificazione, il fatto di scambiarsi  short message e  facce, non mi pare interessante ne’ utile a nessuna causa. Anche sul piano personale, il metodo appare decisamente  una limitazione a chi è abituato a mantenere in piedi relazioni funzionali. A meno di avere uno scopo preciso – promuovere il proprio lavoro,  per esempio o altre analoghe iniziative – queste casuali liste cariche di emeriti sconosciuti, alimentano solo l’illusione di esserci e di contare ovvero di avere molti amici, ignorando che le relazioni sono un lavoro e nemmeno di quelli troppo lievi. Averli tra i piedi, come ho già detto mi piace, ma è un privilegio che non mi è piovuto dal cielo.

Lo stesso vale per la comunicazione politica. Obama ha vinto servendosi della Rete ma aveva un progetto, soprattutto si è fatto una scarpinata in lungo e in largo per il suo paese, incontrando persone, gruppi, fondazioni, imprese, raccogliendo molti quattrini che hanno consentito a lui e ai suoi, il prosieguo di quell’impresa. Poi, il senso del suo del lavoro svolto è stato raccontato in Rete, cercando di mettere ad ulteriore profitto moltiplicandolo, il valore di quell’esperienza. Poi.

Il resto, cioè tutto quello che può succedere in questi non luoghi in cui ci viene promessa  comunicazione a buon mercato e socializzazione come se piovesse, ha senso solo se da qui viene trasferito fuori , stabilendo una corrispondenza tra le due dimensioni. Bene fa la sinistra ad essere in cielo, in terra e in ogni luogo vi siano esseri umani con i quali interagire. Conoscere gente nuova come cementare le vecchie amicizie e comunicare non è un problema nella vita. Basta avercela, una vita. E un messaggio. Qualcosa da dire.

 Ma per tornare a noi, i luoghi vanno custoditi, richiedono cura. Annaffiate le piante, rinfrescate le tende, preparato il trattamento per gli ospiti, andrebbero riempiti di contenuti, se i mercoledì di mia zia fossero fatti di solo allestimento, sarebbero finiti da un bel pezzo. E con essi, l’occasione per trovarsi.

Gli accessi vengono meno a fronte di un procedere stanco, nella riproposizione di uno schema o di un personaggio, sempre quello : il Malinconico, l’Ironico, l’Arrabbiato, il Pensoso, l’Amorosa, il Saggio, la Tempesta Ormonale o il Ciclotimico. Fossero messe innanzi a queste pagine elettroniche le Persone e non i Personaggi, ciascuno col proprio bagaglio, la musica cambierebbe e non ci sarebbe bisogno di cambiare piattaforma per rigenerarsi.

La storia dell’interazione in Rete, del resto, è storia di migrazioni – che un po’ sanno anche di fuga –  per cui, esaurito un territorio, invece di intensificare fertilizzanti e semina, in un’opera di riqualificazione costante, ci si trasferisce direttamente in altro luogo per ri-cominciare, ri-seminare, ri-coltivare e presumibilmente prepararsi ad altro trasloco, per questo la trasmigrazione su Facebook che svuota blogopoli, non mi impensierisce più di tanto.

 Qui si pensa di restare, senza inaugurazioni di altre case chè di gestirne due non si ha tempo, voglia e forse predisposizione. Un po’ per la curiosità insopprimibile di vedere come se la sbroglia – ovvero dove vuole andare a parare –  il Malinconico e la Pensosa, cercando nel contempo di seguire i consigli degli economisti alle imprese in tempi di crisi : investire, innovarsi, resistere. Il che oltretutto, obbedisce alla natura di chi scrive. Qui.

Illustrazione di Babi, citazioni a piene mani dall’avvocato Conte

Cafonalesimo ( imparare dai romani)

Cafonalesimo ( imparare dai romani)

Anfiteatro Flavio

Le foto sono spesso imbarazzanti, soprattutto quelle scattate nei dintorni dei buffet, o quelle ammiccanti a protesi e zigomi oversize, ma se tutti sgomitano per essere immortalati da Pizzi  e apparire nei giorni successivi, su Cafonal, rubrica – si fa per dire –  di social, assai cliccata di Dagospia. com , un motivo c’è

Siamo a Roma, città in cui strusciarsi al Potere è un preciso obbligo dei subalterni che aspirano alla scalata. E di questi tempi per di più. Che altro aggiungere a quanto già autorevolmente detto sulla società dello spettacolo, su certo generone romano un po’ grossier, sui potenti che fanno mostra di sè per suscitare invidia ed emulazione ? Sul Berlusconesimo Imperante e Vincente?

Proprio nulla. E come non si può cavare sangue da una rapa, non si può fare di Cafonal un fenomeno degno di dotte considerazioni. Non più di tanto almeno. Ecco perchè a convocare all’Infedele, Alfonso Signorini, Maria Laura Rodotà, Il filosofo Gianni Vattimo e il giurista Franco Cordero per discutere di Vanità del Potere relativamente all’uscita del libro della premiata ditta Pizzi & D’Agostino, Cafonal, si rischia, nel contrasto stridente, di far apparire Signorini perfettamente a proprio agio, simpatico e appropriato nelle sue considerazioni omnibus – tutti i potenti sono vanitosi –  e Cordero fuor di luogo.

Non un gran risultato. Meglio se l’è cavata Bruno Vespa la sera appresso, allestendo analoga ma più celebrativa trasmissione con ospiti meglio assortiti  e finendo col gestire il consueto pianerottolo di damazze scriteriate in lite furibonda su quale fosse il modo migliore di ricevere gli ospiti, ovvero se fossero più eleganti le riunioni a casa di Maria Angiolillo o quelle di Marisela Federici.

Ma insomma, ogni tanto un chissene frega si può dire? Chissene frega se le porcellane di quella sono migliori di quelle dell’altra, se la tale s’è rifatta, se quell’altro c’ha l’amica, se un posto da sottosegretario è stato assegnato tra il sorbetto e la spigola a casa XYZ o tra uno scosciamento e una sgargarozzata nel patio di casa BCD. Davvero tutto ciò dobbiamo nobilitare con definizioni  da interessantissimo fenomeno ?

Imparare dai romani. Certa materia è contagiosa. A maneggiarla troppo senza essere abituati, si rischia. Sarà che in questa città discendiamo tutti da un fratricidio, sarà che nel corso del tempo ce la siamo dovuta vedere con la peggiore teocrazia, sarà che i panem et circenses ci sono entrati nel sangue – spirito migliore per osservare queste manifestazioni  non conosco –  ma la scrollata di spalle e il chissene frega –  non di superiorità, beninteso,  ma di purissima indifferenza –  ci ha salvato la pelle nel corso dei secoli. Non a caso questo Circo affascina moltissimo i forestieri, leghisti in primis. Davvero pensiamo di apparire meno snob e più vicini al popolo occupandoci seriamente del contenuto di queste poubelles?

Da ultimo sono davvero dispiaciuta per Franco Cordero, venerato maestro, intellettuale a tutto tondo, uno studioso da tenere in dovuta considerazione, maltrattato ingiustamente dalla critica televisiva, per aver introdotto forse l’unico concetto degno a proposito di vanità… le moi est haïssable …citando Pascal e autoincludendosi immediatamente nel novero dei fuori di luogo. E da un certo punto di vista, forse lo era davvero.