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Categoria: La fabbrica del cinema

Paris vaut bien …

Paris vaut bien …

parigi film

Adesso non ricordo bene se poi Jacques Rivette  avesse sciolto il dilemma  tra  Paris nous appartient  e Paris n’appartient à personne. Ma, ipotesi proprietarie a parte, una  cosa è certa : fare un film su Parigi senza scivolare nel “già  visto”, è come ingaggiare  una lotta  disperata contro decine di cineasti, documentaristi, pittori, fotografi, poeti, romanzieri e chansonniers che l’hanno ritratta oramai in mille modi. E infatti non è che Cédric Klapisch, in questo suo Paris, riesca del tutto a eludere l’effetto immagine convenzionale, tra sequenze di Tour Eiffel,  Père Lanchaise, Marais,  Montmartre e Marché internationale de Rungis. Ciò nonostante,  sarà per via delle note di Gnossiennes numero 3 o per la bella fotografia widescreen  di Christophe Beaucarne : l’anima di Parigi, spleen compreso, in questo film, c’è tutta. Con ciò, si potrebbe azzardare l’ipotesi che  Klapisch non si sia affatto preoccupatomdi scadere nell’oleografico, mostrando di Parigi, a bella posta, ogni luogo canonico possibile. Come a volerne marcare la riconoscibilità. Regista di cult quali L’auberge espagnole – con relativo sequel Les poupées rousses –  e Chacun cherche son chat, oltre che di pregiati documentari ( Masai , Ce qui me meut  etc ), Cédric Klapisch, parigino di Neully sur Seine – quindi banlieu –   realizza  un film corale in cui un moltiplicarsi di personaggi incrocia storie e  destini, senza però che ciò comporti la necessità di far confluire ogni vicenda in un happy end o in qualsivoglia forzata quadratura. E se la città che fa da sfondo è un po’ di maniera, non lo sono altrettanto i personaggi : immigrati, signore annoiate, precari, manequinnes, homeless, architetti, dei quali si raccontano, gli amori, gli incontri casuali, le incomprensioni. Ritrovando sempre il regista , tra esuberanza e malinconia, il tono giusto per riflettere sulla caducità della vita e sulla felicità.   Un omaggio molto intenso a Parigi, città difficilissima, complicata, quasi ostica ma proprio per questo, sempre desiderabile. E bellissima.

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Parigi è un film di Cédric Klapisch. Con Juliette Binoche, Romain Duris, François Cluzet, Fabrice Luchini, Karin Viard, Albert Dupontel, Mélanie Laurent. Genere Commedia, colore 130 minuti. – Produzione Francia 2008

Ariecco i Coen

Ariecco i Coen


Coen Brothers  ..dadàn  – tra le più interessanti  aziende a conduzione famigliare made in Usa – tornano, autori di questa spy, dark, noir – le definizioni si sono sprecate – story con la quale s’è inaugurata Venezia 2008, in un tripudio di feste e battimani. Giustamente. Perchè a mettere insieme i registri severi del giallo – step by step, ordinatamente e senza tregua, dal preambolo fino all’assassino – con quelli anarcoidi e  multidirezionali della commedia degli equivoci, ci vuole un certo coraggioso talento – e infatti non tutto – tutto – tutto, è sotto controllo, anche se nonostante ciò,  nulla  va perduto dell’ incantevole divertimento – 


Racconto impietoso dell’idiocy today,  della stupidità che ogni cosa domina e dalla quale siamo dominati e, in alcuni casi, anche governati. Report veritiero sullo Stato dell’Unione, non in buona salute   a dire il vero, come pure cronache recentissime di scatoloni viaggianti per Wall Street indicano, che viene esibito con ferocia amplificata da un tasso satirico di discreta entità.

La vicenda è quella di Osborne Cox (magnifico Malcovich in vestaglia da camera ed ascia) licenziato dalla Cia per problemi di alcolismo (e di conseguenza pure dalla moglie) che sta scrivendo un ambizioso e vendicativo memoriale, il  quale fortuitamente finisce nelle mani di due decerebrati impiegati di una palestra, uno rincoglionito dall’ I-pod, l’altra una segretaria un po’ âgé – ma nemmeno troppo – che invece di predisporsi ai numerosi comforts del viale del tramonto, cerca un’ improbabile  rigenerazione  in  Internet. Sito : staiconme.com (fantastico l’URL ).  Tutto questo  mentre sogna costosi e, impagabili dall’assicurazione,  interventi di chirurgia plastica che, a suo credere, le consentirebbero di sedurre uomini di successo e non solo i losers raccattati in Rete.

 L’intento del duo è quello di servirsi del dischetto in cui è contenuto il memoriale, per ricavarne, a mezzo ricatto, il denaro necessario agl’interventi chirurgici di cui sopra.In tutto questo s’inserisce lo sceriffo federale Clooney, amante contestuale della moglie di Cox e delle segretaria della palestra. Comincia così un tourbillon di sospetti e pedinamenti  talmente fitto che risulterà incomprensibili finanche ai servizi segreti. Ma nel dischetto non ci sono tali rivelazioni da indurre potenze straniere o la CIA o altri soggetti all’esborso….. Nelle frustrazioni e nell’ansia di riscatto , nell’ossessione dei soldi e dei complotti, nell’arzigogolo di fandonie in cui ci ricacciamo per sostenere una condizione umana insoddisfacente, c’è un ricco compendio di deprimente attualità, non solo statunitense. Ultimo film della trilogia degli idioti – Fratello dove sei ? e Prima ti sposo e poi ti rovino sono gli altri due – Burn after reading, sottotitolo inopportuno, A prova di spia, è un film vivace pieno di gag di  incastri narrativi  esilaranti. Recitato da attori (assai divertiti) che manco a dirlo, sono tutti al meglio ( poi qualcuno ha detto che Malkovich è troppo cupo e Pitt troppo scemo ma i ruoli quello richiedevano : esasperazione). Menzione speciale a JK Simmons nel ruolo del capo della CIA. Magnifico Clooney, sempre più bravo sempre più in sintonia col resto del mondo-film. Anteprima mondiale a Venezia 2008. Secondo passaggio ( e sottolineo secondo ) a Toronto, sta facendo cantare il box office negli States.Vediamo qui da noi…. ( esce domani)


Un film di Ethan Coen, Joel Coen. Con Brad Pitt, George Clooney, Frances McDormand, John Malkovich, Tilda Swinton, Richard Jenkins, J. K. Simmons, David Rasche, Olek Krupa. Genere Commedia, colore 96 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Medusa

Una polemica deprimente

Una polemica deprimente

Giovannino Guareschi è stato un intellettuale  di grande spirito, anticonformista, coraggioso, coerente.  Uno, tanto per dire, che ha preferito andare in galera piuttosto che rinnegare le sue idee. Una rarità viste le abitudini  invalse nel Costume Nazionale. Allora come ora. Certo, era un cattolico conservatore, fortemente legato alla tradizione contadina e patriarcale e, proprio per questo, fiero detrattore di quello che era un cavallo di battaglia dei comunisti di allora : il mito del Moderno, senza tralasciare uno solo di tutti gl’infiniti corollari del Progresso. Tuttavia, nessuno scrittore popolare seppe come lui, raccontare, esorcizzandolo, il trauma e  lo smarrimento di un Paese che sulla strada dell’industrializzazione, stava via via perdendo la propria identità, mentre l’ordine delle cose del  piccolo mondo subiva un’irrimediabile trasfigurazione.  Ne’ altri ha mai reso con tanta efficacia, quello scarto che c’è tra le ambizioni e la vanità degli esseri umani  e l’effettiva modestia del loro percorso – di tutti gli ingredienti della satira, l’elemento più sostanzioso – Per questo, ha mille volte ragione Giuseppe Bertolucci quando sostiene che la parte del film  La Rabbia  destinata dal produttore a Guareschi, non rende pienamente  merito al suo contributo intellettuale. Vai a sapere perchè, ne emerge un ritratto stizzito e vagamente razzista che, a dire il vero, non gli corrisponde affatto. Sono dunque in malafede quelli che in occasione della ricostruzione del film  realizzata, così come Pasolini avrebbe voluto, da Giuseppe Bertolucci  – che in quanto presidente della cineteca di Bologna, è depositario della fondazione Pasolini –  hanno parlato di censura e  di ideologismo. La nuova versione non contiene infatti la parte di Guareschi ma ci restituisce molto dello spirito originario del film che non era certo quello di mettere insieme due punti di vista diametralmente opposti in nome di un malinteso concetto di obiettività. I nuovi inserti parlano di temi di attualità,  di conflitti di classe, di paura, avventurandosi la narrazione e scavando in eventi quali la partecipazione italiana alla guerra di Corea, la lotta per l’indipendenza algerina, la morte di De Gasperi, la nascita della televisione. La partenza sono quei cinegiornali d’epoca democristiana – la settimana Incom per intenderci –   che frequentemente usavano travisare i fatti e che nei confronti di Pasolini avevano un atteggiamento irridente e beffardo. Il film ruota intorno ad un lavoro di (prezioso) smantellamento di quelle menzogne. La  risposta poetica oltre che politica alla scontentezza, all’angoscia, alla paura della guerra nucleare che Pasolini intendeva offrire  nell’antico progetto, è in quest’opera ineccepibile dal punto di vista  filologico ( il film, fu sforbiciato a dovere  prima della sua uscita nelle sale dove, tuttavia, rimase pochissimo) per di più arricchita  da  un testo poetico di Giorgio Bassani e un testo in prosa  di Renato  Guttuso.

 Ma comunque  si giudichi  l’operazione diretta da Bertolucci, una scelta artistica rimane una scelta artistica, discutibile quanto si vuole, ma non al punto da giustificare richieste di dimissioni dal comitato per i festeggiamenti del centenario della nascita di Guareschi. Richiesta della famiglia dello scrittore, cui Bertolucci ha immediatamente aderito. Che peccato però. Si renderanno conto gli eredi, quale perdita subisce l’attività del Comitato? Se le cose stanno così, cioè se ci si deve lasciar guidare dall’ umore piuttosto che da autentica passione culturale, allora tanto vale offrire la presidenza delle associazioni  e delle fondazioni direttamente ai parenti, anche se le loro opinioni spesso vengono strumentalizzate per finalità non proprio limpidissime. Così, è accaduto che un vero coro, assolutamente trasversale e bipartisan, abbia trovato la scelta di eliminare dal film la parte di Guareschi addirittura antidemocratica, manco, in quel di Bologna, avessero dato alle fiamme lo spezzone di Guareschi. La Rabbia di Pasolini così come è stata ricostruita, è invece un documento interessantissimo, eretica testimonianza di grandi mutazioni sociali, raccontate direttamente da chi ne fu acuto interprete. Un lavoro che poco ha a che fare con la versione del 1963 : sono  due cose distinte. Escludendo con ciò, il fatto che Giuseppe Bertolucci, che di Guareschi riconosce il contributo , abbia voluto in alcun modo censurarne la testimonianza. Altre dimissioni, per ben altre intenzioni smaccatamente censorie ci vorrebbero.Ma queste come direbbe Giovannino…son faccende troppo grosse.

( la saga della Rabbia in questo blog comincia qui e chissà quando finirà)

LA RABBIA DI PASOLINI
Introduzione di Giuseppe Bertolucci (2’)
Materiale inedito dell’archivio dell’Istituto Luce (16’)
La Rabbia (edizione del 1963, 53’) del Gruppo Editoriale Minerva RaroVideo
Appendice: L’aria del tempo (12’).
Durata totale: 83’

Da un’idea di Tatti Sanguineti.
Realizzazione: Giuseppe Bertolucci.
Montaggio: Fabio Bianchini
Letture della parte ricostruita: Valerio Magrelli e Giuseppe Bertolucci

 

 

Silvia non è morta è ritornata dal canal

Silvia non è morta è ritornata dal canal


…e non si sa se questo sia un bene o un male, essendosi tirata dietro, nel suo risorgimento dalle acque, anche il consorte, incapace oramai di presenziare a qualsiasi evento senza illustrare i capisaldi della sua celebrata Mistica : Uno : (trapianti d’organi a parte), molte vite umane potrebbero essere salvate. Se ci fosse più sorveglianza da parte dei datori di lavoro e meno pigrizia negli operai.

Due : siamo vittime della degenerazione di governo e opposizione.

Tre : No al parcheggio sotterraneo del Pincio. Meglio il mare di lamiera che in superficie valorizza i monumenti, allieta l’esistenza dei cittadini romani, residenti e non, impedendo all’area di essere infine pedonalizzata ( io a Celentano farei fare una promenade  mentre spinge un passeggino gemellare tra marciapiedi microscopici, macchine parcheggiate e vicoli ..so beautiful ).

Nonostante tutto ciò, siamo lieti che Yuppi du, non un capolavoro della cinematografia, ma egualmente interessante nel panorama scarno, se non inesistente, dei musical italiani, sia stato restaurato e se ne sia realizzato un dvd da porre in commercio per la gioia degli estimatori . Ognuno pensa al proprio tornaconto è un altro  caposaldo della Mistica di cui sopra. E per una volta almeno, siamo d’accordo.

Ma veniamo al dunque :

Sull’ Avenida Paulista a San Paolo del Brasile, due amici s’incontrano, tentano una conversazione che però è continuamente interrotta dai trilli dei rispettivi  telefonini. Così decidono che l’unico modo per avere uno scambio reale è telefonarsi a loro volta. Parleranno di etica, di vita, di amicizia, incuranti del traffico e del via vai di persone che li circonda. Comincia così Venezia 2008, con questo corto emblematicamente titolato Do visivel ao invisivel , del centenario maestro ( ma che spirito, che tocco  e che verve..) Manoel De Oliveira. Metafora della attuale difficoltà a comunicare se non attraverso mezzi  ma anche la sintesi  di quel che cerchiamo nel cinema :  il racconto di ciò che ( ancora) non si vede.

 

Elaborato il tragitto di questa Mostra e, per sovrapprezzo, attraversato da polemiche spesso ridicolmente gonfiate da una copertura mediatica che, in quanto spropositata, bada sempre meno ai contenuti, offrendo più rilievo alla marginalità.

Marginalità data non solo dai muri del pianto di Ippoliti o dagli abbigliamenti informali di certi critici o dal menù servito per colazione a Brad Pitt ma anche dalle dispute blockbuster – cinefilia ( Più Risi meno Antonioni si è dovuto leggere in un editoriale di cui francamente non si sentiva la necessità) ovvero dalla imperdibile polemica se sia o meno servita la contestazione

Come se tenersi un regolamento di epoca fascista che consentiva ai governi esteri, tramite le loro ambasciate, di avere pesante voce in capitolo ( vedi alla voce censura) nella selezione internazionale, potesse giovare all’Arte.

Tuttavia – e questo è vero – le presenze sono calate, colpa della crisi economica ( di cui poco si  parla ) più che del programma definito (a torto ) anemico e del fatto che se Venezia è una città costosa per le Major hollywoodiane, come pure precisato da Variety in apposito articolo, figuriamoci per i ragazzini con lo zaino in spalla e i di loro parenti.

Ciò detto, Müller, a mio sommesso parere,  ha allestito una mostra significativa dell’attuale offerta cinematografica di qualità nel pianeta, compiendo slalom tra i diktat di Toronto, lo sciopero degli sceneggiatori che ha ovviamente avuto ricadute sui tempi di lavorazione e consegna , la censura cinese che sdogana solo film in cui tutto va bene e chissà quale altra diavoleria o capriccio del settore.

E’ giusto che una mostra sia la più variegata – o schizofrenica, fa lo stesso –  internazionale, eclettica, sperimentale,  possibile, che offra una panoramica sui generi, senza ridicole –  in epoca di ibridazione, poi.. – pretese gerarchiche,  che offra al pubblico la possibilità dell’incontro –  che diventa sempre più scontro – con la realtà, con il lirismo, con l’immaginario. Sotto questo aspetto  il talento esplorativo – nonostante la riconferma che avrebbe suggerito in chiunque, un minimo di surplace – della catena di comando Müller and co ha dato i suoi risultati.


Sognando un’altra Cannes, la Mostra ha schierato in concorso ben quattro film italiani.  Scelta giustificata date le affermazioni primaverili da mettere a profitto che però non ha sortito l’effetto sperato, ne’ si può considerare la coppa Volpi a Silvio Orlando un risultato soddisfacente. 

L’impeccabile,  quanto a gusti, Wim Wenders, lo ha pur spiegato : peccato che il regolamento impedisca di premiare  il miglior attore se il film in cui recita è stato già insignitondel Leone d’oro.

Come dire : avremmo premiato più volentieri Rourke –  notevolissimo peraltro nell’ interpretazione del wrestler  Randy “The Ram” Robinson.

Non che i nostri film fossero  brutti , intendiamoci, ma le grandi aspettative della vigilia e soprattutto il confronto – in alcuni casi umiliante – con la cinematografia di altri paesi,  hanno orientato le scelte dei giurati su opere di differente spessore.

Poco male. Ne’ per questo sembra giustificata la recita dei requiem – dopo l’alleluja di Cannes sarebbe in ogni caso troppo tempestiva – già avviata dai giornali in salvezza dell’anima del defunto cinema italiano.

In definitiva : Opzetek ha sperimentato ( ben venga, a prescindere) un differente registro rispetto al consueto e anche se il suo film  ha un che di incompiuto ( bravi gli attori, toccante la storia ma..) è già  a Toronto e sarà al Moma di New York in autunno con una retrospettiva.

Corsicato è tornato tra noi con un film innovativo, vivace, che riesce finanche ad alleggerire il gravoso testo di Von Kleist già trasposto da Rohmer anni fa,  e anche se il richiamo ad Almodovar è pura invenzione ( ah la critica, oramai è diventata un coretto ben intonato ) ha messo in circolazione un’opera dignitosa e di discreta qualità.

E’ possibile dunque che il pubblico riservi  a questi film un trattamento differente, pareggiando così i conti con il giudizio non sempre generoso degli addetti.


Ma il punto non è questo, la difficoltà del nostro cinema, probabilmente  risiede nella cifra narrativa, troppo chiusa in ambiti angusti, di coppia, familiari, privati, troppo incentrata sulla psicologia dei personaggi, laddove il massimo della contestualizzazione è dato da una lei che lavora in un call center.

Anche Jerichow di Christian Petzold è la storia di un triangolo classico, anche Nuit de chien di Werner Schroeter, ruota su di un ossessione amorosa, anche Rachel getting married di Demme  racconta del ritorno a casa di una problem child la cui presenza mette in moto nella sua famiglia, dinamiche infami .

 

Ma intorno ad ognuna di queste storie si muovono  universi interi dei quali la narrazione puntualmente si appropria e che ci restituisce, non meno indispensabili delle singole vicende

Sono lì. Non vengono lasciati fuori della porta di casa. Persino Calopresti ci ha raccontato di aver costruito il suo documentario sulla Thyssen ( ahimè brutto ) sul dolore, un sentimento privato che per diventare collettivo e quindi motore di cambiamento, abbisogna di un’ impalcatura robusta : la presa di coscienza.

Ma quanto del necessario senso civile viene sottratto allo scopo principale : informare allineando i fatti. Che, soprattutto in questo caso, sono un cazzotto nello stomaco e annichiliscono assai più di qualunque altro racconto. Torneremo a riparlarne.

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Do it again

Do it again

La sua più sensazionale apparizione in pubblico avviene in un tetro pomeriggio invernale presso una delle basi militari Usa in Corea . Il cinegiornale che documenta l’evento la mostra, prima di andare in scena, intirizzita, in  un abito leggero color prugna e con i piedi nudi, calzati nei classici  sandali da sera col listino alla caviglia. Per tutta la durata dello spettacolo sarà l’unica donna innanzi ad una sterminata platea  di uomini, quando la carrellata mostra il pubblico assiepato fin su di una collinetta antistante il palco, ci si può rendere conto :  sono migliaia.  Scoppieranno boati e manifestazioni d’entusiasmo accompagneranno l’esibizione ma sono certi improvvisi silenzi a creare un’atmosfera irreale. Lei si dimena, provoca, incoraggia,  mentre – guardare il cinegiornale per credere – vere e proprie ondate di testosterone la investono. Quando accennerà Do it again – Fallo ancora – sarà talmente esplicita, che l’Esercito la pregherà di eliminare il brano dal repertorio dei  futuri spettacoli per le truppe. Qualche tempo dopo annoterà Penso che non sentii mai di esercitare un effetto sulla gente prima di andare in Corea. E’ uno dei momenti più felici della sua esistenza : ha da poco sposato Joe Di Maggio e nessun’ altra donna fino al funerale di Kennedy e all’imporsi di Jacqueline, avrà un posto così centrale nella vita americana. Oltre ventiquattro fotografi famosi – da Avedon a Capa a Enriques a Beaton – hanno ritratto di  Marilyn, bellezza, talento, stati d’animo, ma in nessuna di queste foto ritroviamo l’entusiasmo e la vitalità, il magnetismo che emana da quel filmato tra i soldati. Marilyn  era incantevole, ironica, arguta, sapeva cantare e recitare ma  soprattutto aveva nell’animo tutta la pulizia del mondo che  esprimeva con naturalezza e slancio  nel modo tutto suo, di entrare in perfetta sintonia con il pubblico. Siamo nel 1954, in una specie di sterminata caserma, distanti dalle trovate pubblicitarie per gli amatori della domenica, dall’erotismo prodotto artificialmente – lo Chanel n 5 al posto del pigiama o la biancheria in frigorifero  o la ruffianeria del concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff – In Corea, una canzone molto popolare, una platea lontani da casa e l’incarnazione compiacente del sogno erotico di qualunque maschio del pianeta, fanno scattare un magico incastro : una trappola di naturale sensualità che continua a funzionare a distanza di oltre cinquant’anni. Marilyn Monroe muore, forse suicida, nella notte tra il quattro e il cinque agosto del 1962. La misura del suo valore scriverà Norman Mailer ci è suggerita dall’espressione affranta sul volto di Joe Di Maggio, il giorno di quel tremendo funerale a Westwood, presso Hollywood.