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Mese: Maggio 2008

Respiro impresa

Respiro impresa

La malattia del paese è la bassa crescita ma l’occasione – un esecutivo con una solida maggioranza e un’opposizione dialogante – è irripetibile e pertanto non bisogna lasciarsi sfuggire  l’opportunità di liberare le imprese dall’oppressione fiscale, da quella burocratica e  – come ti sbagli ? -  anche da quella giudiziaria. Emma Marcegaglia è stata molto deludente, da lei, così capace, fiera e concreta si sperava arrivasse un segnale di maggiore autonomia e invece la sua modalità di donna alla guida della Confindustria risulta complessivamente  indebolita, soprattutto  per il gioco di specchi che il discorso tenuto all’assemblea annuale di ieri,  ingaggia col Programma di Governo, dal capo del quale, non a caso,  riceve alla fine,  appalusi e abbracci. Qualcuno ha scritto che è stata arrogante, che a ognuno ha consegnato un compito e ad ognuno ha assegnato un voto . Magari. Invece niente, adattando il suo disegno a quello del Governo ha compiuto esattamente l’operazione contraria : gran docilità, nella richiesta costante dell’investitura ufficiale. Come se non fossero stati sufficienti i consensi plebiscitari che l’hanno portata alla Presidenza.  Quanto al merito, non che ci si aspettasse qualcosa di diverso da una visione del mondo  marcatamente liberista, attribuire però, le responsabilità della scarsa crescita ad un sistema che va sicuramente riformato e alleggerito ma che sottende una serie di garanzie per i lavoratori e la collettività, significa banalizzare, e di molto, l’analisi. Insomma a sentir lei, Marcegaglia, le imprese di questo andamento poco brillante dell’ economia hanno responsabilità sfumate , nemmeno quelle di amare, per esempio, i mercati protetti, le agevolazioni, gli aiuti statali, l’essere in certi casi poco versati al rispetto delle regole ed infine mancare di coraggio negli investimenti per formazione e ricerca. Il prosieguo è in tono e realizza una specie di crescendo rossiniano :  ridefinire  i rapporti industriali oramai obsoleti, indicizzare le pensioni all’attesa di vita liberando risorse per il lavoro delle donne e dei giovani e i salari alla produttività, rivedere contratto collettivo nazionale e regole del mercato del lavoro puntando sulla flexicurity. Per realizzare ciò, mano tesa al sindacato nella stagione che vede il superamento della contraddizione tra capitale e lavoro. Certo che se però è l’impresa e non lo sviluppo, il fine ultimo di tutta questa nuova stagione di concordia, se agl’impenditori prospererà sotto agli occhi il fatturato e ai  lavoratori non rimarrà che la flexsecurity, sarà difficile archiviare del tutto l’aborrito conflitto. Il resto va, nella noia dello smantellamento delle municipalizzate, dei costi della politica da abbattere e di rifritture varie: dai pantaloni Fendi ai grazie a mammà e papà imprenditori  – se non si è discepole inappuntabili, si è figlie, non si scappa –  per la formazione ricevuta e per averle consentito di respirare Impresa fin dai primi anni di vita. Il fatto, ahimè, è che con i suoi discorsi, anche i presenti, respirando, hanno sentito lo stesso odore .

 

Ansiolitico di massa

Ansiolitico di massa

In attesa di capire quali macchinazioni inventerà il nuovo governo per aggirare una legge (la Bossi Fini), nei casi di individui privi di permesso di soggiorno (quindi clandestini oggi e futuri delinquenti tra breve ) ma egualmente occupati nel nostro paese (quindi con lavoro nero), prendiamo per buone le parole di Tremonti che vorrebbero questa prima attività legislativa  volta a togliere un po’ d’angoscia alle famiglie, in presumibile affanno per problemi di carattere economico con aggravio di  senso d’insicurezza da immigrazione clandestina delinquente e incontrollata. Resta inteso che per le famiglie preda di angoscia data da un uso sempre più disinvolto dello strumento penale e della misura detentiva, non resta che l’assunzione di un ansiolitico, atteso che in aperta contraddizione con il Principio Guida di sicura efficacia elettorale – Padroni in casa nostra –  gli stranieri irregolari,  più che scacciarli, si tenda a farne ospiti  di carceri o strutture assimilate, introducendo  il reato di immigrazione clandestina. E passi che gl’istituti di pena  siano sovraffollati e le Corti non abbiano affatto bisogno che decine di migliaia di processi, ancorchè per direttissima, vadano ad aggiungersi al già complicato esistente, ma solo un alieno può pensare che affidando un’espulsione al nostro sistema giudiziario, l’attuazione ne risulti agevolata. Se poi si pensa che tutto questo trambusto di forze dell’ordine, istituti di pena, tribunali e direttissime, si creerebbe per colpire individui considerati pericolosi a prescindere, si ha un’idea esatta dell’utilità sociale di queste trovate. Va detto, che l’intero pacchetto denominato di Sicurezza, è tutto intriso di questo spirito risolutivo delle complicanze. D’altronde che razza di provvedimento è, quello che trasforma una condizione personale in reato? E  le aggravanti per i reati commessi da stranieri? Che ne sarebbe della parità di trattamento riferita alla responsabilità personale? Certo,  come dice Maroni, in altri paesi il reato di immigrazione clandestina c’è, ma differenti sono i contesti costituzionali e le modalità che regolano l’ accesso al sistema giudiziario, due condizioni dalle quali il legislatore non  può prescindere. Come pure resta attivo, equo ed infinitamente più rassicurante di mille inasprimenti,  il principio costituzionalmente valido che mette in guardia lo stesso legislatore dall’assumere provvedimenti che prescindano da accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili  introducendo sanzioni penali  tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di eguaglianza e proporzionalità. Insomma in uno Stato Democratico carcere e strumenti penali non sono utilizzabili ad libitum dal legislatore. Resta da capire se l’attuale governo è davvero convinto di poter porre rimedio all’immigrazione clandestina e alla problematica afferente, attraverso provvedimenti impraticabili oltre che a serio rischio di essere rispediti al mittente dopo l’esame di compatibilità costituzionale, ovvero si serva delle maniere spicce per farne materia di annunci roboanti in chiave ansiolitica. Se così fosse, non sarebbe una buona notizia per la democrazia, tantomeno per il superamento delle numerose problematiche . Non rimane che sperare nelle preoccupazioni dei datori di lavoro di badanti asiatiche e sudamericane prossime alla trasvolata oceanica regolarizzatrice e nei giudici costituzionali ( ai quali si deve il bel linguaggio della sentenza n. 22 del 2007, alcuni passaggi della quale sono citati in corsivo)

Oh Georges (C’est dur d’etre aimè par de cons)

Oh Georges (C’est dur d’etre aimè par de cons)

Al cuore non si comanda e dunque, prima di raccontare delle complicate circostanze che hanno portato Georges Wolinski,  il  garbato e affascinante signore  dell’immagine qui sopra, a Cannes, dirò del suo talento e di come grazia, eleganza, tratto lieve e senso artistico, pur messi al servizio di cause feroci e mortifere quali la guerra dei sessi e l’intramontabile maschilismo, riescano spesso nella non facile impresa di neutralizzarne i devastanti effetti. Se satira dev’essere, satira sia, anche a rischio di sfiorare argomenti che per istinto falsamente ideologico, si vorrebbero trattati con maggior rispetto. Tanto Georges con tutti quei porconi laidi e allupati non la conta affatto giusta e come spesso capita in queste circostanze è il disegno e non le battute a rivelare da quale parte pende l’autore. E poi c’è una qualità che su tutte spicca e che lo rende unico : l’imprevedibilità. Non è poco se si pensa alla semplicità delle pulsioni su cui fa leva la satira e all’inevitabile senso di scontato  che spesso produce il voler strappare la risata facile a tutti, e a tutti i costi.

Wolinski del resto, è sempre stato irrefrenabile fin dagli esordi, così  dopo aver fondato giornali sovversivi come L’Enragè; – dodici numeri distribuiti a mano a Parigi, anno di grazia 1968, più esplosivi di cinquanta molotov confezionate con amore  educato i suoi istinti peggiori in accademie quali Hara Kiri, subtitled Journal bête et méchant, poi trasformatosi, per un combinato disposto di disgrazie economiche e immancabili noie legali prima in Hara Kiri hebdo e infine in Charlie Hebdoet pourquoi pas Charlie Hebdo? disse monsieur Wolinski ad una cena costituente la nuova creatura editoriale –  il nostro caro Georges si ritrova in tribunale con tutta la redazione. Esperienza non nuova certamente ma questa volta non è il ministero degl’Interni che chiama a render conto di questo o quel misfatto ma nientedimeno che la Moschea di Parigi,l’Unione delle Organizzazioni Islamiche in Francia e la Lega Islamica Mondiale. Tombola.


Tutta colpa di una copertina di Charlie Hebdo disegnata da Cabu, in cui un Maometto di nero vestito, sopraffatto dagl’integralisti e al colmo della disperazione, mormora la frase c’est dur d’etre aimè par de cons che poi è anche il titolo del documentario che ha portato Wolinski, Philippe Val ed altri a Cannes per la presentazione ufficiale di sabato scorso.Si tratta della cronaca di quel  processo nei tre giorni in cui si avvicendarono testimoni eccellenti, uomini politici – da Hollande a Bayrou senza contare i telegrammi di sostegno dell’allora candidato presidenziale Nicolas Sarkozy –  più noti cineasti, noti disegnatori satirici e noti preti antisemiti. Una sarabanda assolutamente folle e godibile  anche se non si è appassionati di procedure, divertente per l’assemblaggio di momenti quasi teatrali in cui il diabolico avvocato maître Francis Szpiner – uno dei legali di Chirac, si scoprirà poi,  che ha assunto le difese della Moschea di Parigi preoccupato per eventuali ritorsioni islamiche sui francesi all’estero –  tenta il colpaccio invocando in aula la libertà d’espressione per tutte le religioni mentre alla sua controparte  maître Richard Malka non par vero di cogliere l’occasione per mostrare alla giuria le vignette islamiche su Benedetto XVI assai inquietanti per la verità. Ironicissimi ed elegantissimi – ed entrambi presenti a Cannes – i principi del foro parigino, un po’ meno la folla ripresa fuori del Palais de Justice, vivace e litigiosa, in verità. Ma tanto è inutile. Non è che si sia nella patria della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, più volte ribaditi dal 1789 fino al 1948, così, per cambiar aria. La sentenza è di piena assoluzione perché la libertà di espressione è un caposaldo della democrazia. E gran trionfo per tutti – avvocati, disegnatori, redattori e regista – è stato anche al festival, dopo tutte quelle misure di sicurezza e quelle cautele, ci sarebbe mancato anche il flop : alla fine vincono coraggio spregiudicatezza, laicità e libertà d’espressione. Almeno in Francia.

 

C’est dur d’etre aimè par de cons è un film di Daniel Leconte  prodotto dalla Film en Stock; distribuito da Pyramide film. Francia 2008

Montée des Marches ( eppure battono alla porta)

Montée des Marches ( eppure battono alla porta)

Per oggi a Cannes erano previsti : il sole, l’arrivo di Julie Christie e di Sylvia Koscina, la partenza del travestito Harlow, diretto a San Francisco, per abbracciare il fidanzato reduce dal Vietnam, un ulteriore aumento del prezzo dei pompelmi e delle passeggiatrici, il pieno assoluto dei grandi alberghi, il terzo miliardo di affari al Marché du film. Invece oggi ci sono la pioggia le bandiere amainate. ” Niente carnevalate” ha detto De Gaulle di ritorno da Bucarest. Almeno a Cannes il suo ordine è stato scrupolosamente osservato : la Costa Azzurra ha l’aspetto grigio e languoroso di fine stagione. E siamo a maggio.

Maggio del 1968 ovviamente. Quanto a maggio 2008, a Cannes,  di uguale c’è rimasto solo il maltempo, essendo sin improbabile definire  languorose e grigie le tende e le chaises longues della spiaggia, men che meno la pletora di yacht ancorati  al largo. Quarant’anni sono passati da quando il cronista raccontava in una sorta di day after, quel che era successo la sera prima al Palais, quando cioè Truffaut, Godard, Polanski  e Malle, si erano aggrappati , per protesta, al telone dello schermo. Cannes – avevano detto  –  è un insulto, non appartiene a questa epoca ma alla Belle Epoque dei nostri nonni, con gli aristocratici che passeggiano in Bentley, autista  e valletto malese, il tutto a fare da degna cornice  a film come Via col Vento – una copia del quale, appositamente restaurata,  inaugurava la manifestazione quell’anno –   Il festival fu – come da esplicita richiesta dei contestatori  equamente divisi, chi a fronteggiare la polizia sulla Croisette, chi a occupare il Palais – sospeso.

Chi avrebbe detto che dalla porta spalancata sullo scandalo degli spettatori in sala, Godard e compagni avrebbero fatto irrompere il Cinema attraverso le voci degli operai della Renault e degli studenti delle facoltà francesi occupate, rivendicando a gran voce l’esigenza di raccontare le storie del proprio tempo insieme a sogni, pulsioni liberate, desideri. Non era, ovviamente, una retrospettiva di Via col Vento, il peggior di tutti i mali, ma ben rappresentava il prototipo del film festivaliero, un colosso americano, improbabile, romantico e zuccherosamente sudista. Ma se la rivoluzione non può avanzare,come purtroppo avvenne, che almeno si proceda sul terreno di utili riforme. Così contestatori del maggio 1968  Godard, Truffaut, Malle, ben sostenuti  da maestri  del calibro di  Chaplin, Hitchcock e Rossellini,l’anno successivo crearono la Quinzaine des Réalisateurs, la sezione autonoma gestita dagli autori francesi che, senza entrare in conflitto con la selezione ufficiale, ne divenne, com’era nel progetto, irrinunziabile stimolo per il cambiamento.

Da allora nessun Festival potè più dire di essere lo stesso. Oggi la Cannes risorta dalle ceneri di quella contestazione, è irriconoscibile : è cambiato il pubblico ( in meglio, più appassionato e disponibile anche alle offerte più ardite ) e lo stesso concetto di film da festival. Quel che un tempo era considerato un tipico, incomprensibile, prodotto d’autore, da presentare nelle rassegne minori e magari  nelle proiezioni di mezzanotte,  oggi fa bella mostra di sé  in Concorso, mentre al povero Indiana Jones non “rimane” che trasformare la facciata del Carlton in tempio atzeco. Con tanto di incredibile, anacronistico orologetto da polso Chopard, al centro della scena. Contraddizioni da accettare con serenità, senza musi, acredini e moralismi, c’è tanta di quella offerta culturale in questo Paese dei Balocchi, tanta capacità di rigenerarsi anno dopo anno, che puoi tranquillamente goderti la festa senza curarti dell’andirivieni di elicotteri, dell’abito di Fendi di Garrone  e di quelli Dior pour homme dell’intero cast del film brasiliano Linha de Passe e dopo aver appreso che persino il ribelle Deninis Hopper firma un video per Tod’s, vincere la gara di resistenza al freddo e alla pioggia con i buyers asiatici, l’unico vero must di quest’anno (resistere in sandali e Burberry)

Pogrom ( ogni cosa ha un nome)

Pogrom ( ogni cosa ha un nome)

Varcata la frontiera che poi, ironia della sorte, frontiera nemmeno è più, tutti quelli che incontri  ti chiedono dei Pogrom (e, in secondo battuta, dei Rifiuti di Napoli). Visti da lontano i problemi italiani non riescono ad assumere,  come si sarebbe pensato (o sperato) alla partenza, contorni attenuati. Anzi. Qualcosa di molto grave è successo al senso civico di questo paese se di fronte alle devastazioni dei campi rom e alle retate, nessuno s’indigna concretamente. Lo leggi negli occhi degl’interlocutori stranieri che magari hanno già avuto a che fare con questi problemi nei loro rispettivi paesi  e che sanno come la pensi. In realtà – cerchi di spiegare –  le mancate risposte procurano ulteriori sensi di smarrimento se, la calcolata rinunzia dell’intera classe politica a porre i necessari distinguo alla Minaccia che oramai il Diverso ma, quel che è peggio, il Povero, costituisce per la gente cosidetta perbene, si traduce in esplicito avallo del pogrom. Ecco che minaccia e paura diventano una sorta di rendita politica. Che senso avrebbe, altrimenti, stigmatizzare frettolosamente gl’incendi nei campi e, nel contempo, offrire la sponda attenuante dell’esasperazione, ai cittadini che vivono in quartieri a ridosso delle baraccopoli ? Davvero si pensa che seppur alte percentuali di devianza, giustifichino la deroga al principio giuridico della responsabilità individuale? In quale modo s’intende  recare un buon servizio al ripristino della legalità se in nome di un sentimento erroneamente spacciato per popolare, si rifiutino principi elementari di convivenza civile?  Non è un caso che sia  sparita da ogni progetto ma anche dal lessico abituale di queste circostanze, ogni Misura che travalichi l’Emergenza,  non dico la Riforma Giudiziaria ma almeno quegli accorgimenti legislativi che renderebbero meno tortuoso il corso dei processi per i reati minori, non dico una politica di servizi ma almeno di strutture destinate, come è negli accordi con la Comunità Europea, mentre invece si fanno strada forme aberranti di punizione della clandestinità sulla scorta di criteri aleatori di pericolosità sociale. La sensazione è che di emergenza, in paura, in minaccia, non si risolva alcun problema. Davvero nessuno, vuol tentare un discorso veramente e interamente politico, sul fatto che il senso di sicurezza non può risiedere solo nella cacciata di centoquarantamila rom? Davvero lo sfruttamento di donne e bambini di cui i rom sono accusati e in molti casi giustamente, può essere assunto ad alibi e magari risolto spostando gli accampamenti un po’ più in là?  Se nessuno indicherà  nel razzismo e nell’intolleranza gl’istinti in assoluto più bassi con i quali una collettività dovrebbe fare i conti, che ne sarà non solo dei rom che probabilmente sopravviveranno a questo ennesimo assalto, ma di noi stessi così ridotti a ostaggi della Paura senza il soccorso di strumento alcuno : democratico, civile, solidaristico, di buon senso ed infine, umano? Per questo suona insensata la raccomandazione odierna dei Vescovi di non buttarla in politica, invece è proprio lì che dovrebbe andare a finire tutta questa vicenda. Lì o come Cristo comanda. Così ce n’è per tutti, per chi ha da guidare il Paese con strumenti non solo di propagandistica repressiva, per chi ha da fare l’Opposizione senza sfigurare la propria immagine  e anche per chi, stando a quanto afferma, avrebbe  da assolvere una missione terrena in un modo più incisivo e spregiudicatamente cristiano.