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Mese: Settembre 2008

Psiche sa leggere e scrivere

Psiche sa leggere e scrivere

Grand Rentrée di antichi tic Contiani, seppur declinati in chiave elettronica - i suoni di gomma e di plastica dei sintetizzatori, con la loro strana poesia –  Ma l’ abbandono momentaneo di swing e jazz, non scalfisce minimamente lo smalto delle esecuzioni. Psiche che  sa  leggere e scrivere – pallida lampada araba – è  il titolo del nuovo album, sintesi  del  carattere introspettivo ed insinuante  che attraversa l’intera collezione di brani. Niente di nuovo si dirà : c’è la bicicletta, Kipling, il circo, i pellerossa, la Francia, i rappel esotici, i viaggi,  il Novecento e la femminilità che continua ad essere misteriosa. E invece no e sono proprio le sonorità digitali a determinare l’efficacia  di certe soluzioni armoniche,  come – esito imprevedibile – l’esaltazione della voce dell’ oboe o di quella del sassofono baritono. Attualizzazione, magari anche un po’ ruffiana ? No, contaminazione piuttosto, ovvero risultanza  di una ricerca di cui, non tragga in  inganno pioggia pioggia pioggia pioggia…e Francia,  Conte s’incarica da sempre. Non a caso lo inondano di premi oramai in tutto il mondo. Piace moltissimo a me, inoltre, che ad Amore, per una volta, si preferisca Psiche e la si celebri. Che la presentazione dell’album sia avvenuta alla Salle Pleyel in Faubourg Saint’Honoré, tempio, di nome e di fatto, ( è un auditorium straordinario ) della musica colta. E non all’Olympia. Che di Berlino si colgano atmosfere mai più riproposte, da pre – caduta del muro. Che la conversazione d’amore di Coup de Thêatre, cantata in coppia con Emma Shapplin, sia quanto di più plateale e meno intimo possibile e che nel Quadrato e il Cerchio siano presenti, con qualche eco direttamente  da Aguaplano, i sensi della più stringente delle attualità. Psiche dilaga a diverso titolo, in questi quindici brani e si lascia decifrare, non senza le solite, familiari, inquietudini.

Se il mito dell’Indistruttibile crolla

Se il mito dell’Indistruttibile crolla

Cinefilo di un certo rango, colto in flagrante visione di questo imprevedibile blockbuster, sere fa, ha prodotto  a – peraltro non richiesta –  sua  discolpa la seguente citazione da Wittgenstein ( Ludwig ) C’è sempre qualcosa d’intelligente in uno stupido film americano, mentre sono sempre stupidi i film non hollywoodiani intelligenti. Dunque, se ancora persiste in qualcuno, l’idea balzana di voler sembrare intelligente,  la citazione è disponibile e utile in varie occasioni. Nel caso di Hancock – che così si chiama in omaggio al primo firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza –  però siamo di fronte ad un fenomeno di vera e propria mutazione del supereroe cinematografico made in USA. I tempi cambiano e non ci sono più le tutine pastello, le mantelline e quell’aria sana, vitaminizzata e consapevole della Missione Superiore da compiere che solo i titolari di superpoteri, possedevano. Tant’è che persino il Batman di Nolan ha dato forfait, divenuto incapace finanche di distinguere  il bene dal male. 

Hancock è perfettamente allocato sulla scia di questa trasformazione, ricoprendo in questo film il ruolo dell’ anti – supereroe riluttante e maldestro. Un vagabondo astioso, puzzolente, e quasi sempre ubriaco, come da stereotipo razzista del maschio afroamericano, inaffidabile e potenzialmente pericoloso  – ma niente paura,  il  cast di questo film vota tutto per Obama –  con berrettaccio di lana calato sulla fronte, barba lunga  e mise  lercio – grunge metropolitana. Come se non bastasse, è teorico del lavoro zero, quindi sordo e insensibile a tutte le  imperative sirene del Sogno Americano.  Intruppone come non mai, al punto che quando, seppur controvoglia, si adopera per soccorrere i Buoni, combina una tale teoria di catastrofi, da far riflettere se i danni derivati da effetti collaterali non siano più insidiosi del Pericolo da Scongiurare (e qui sorge il dubbio se sia questo o meno, un film sull’Iraq). Conseguenziale a tanta sottoproletaria sgradevolezza, è l’essere impopolare tra gli stessi cittadini che dovrebbe proteggere.A rompere la catena dei … salvo – nove – persone – ma – devo – nove milioni  per – danni – alla città – di – Los Angeles,  arriverà proprio uno dei miracolati che, scampato ad un incidente per provvidenziale supereroico intervento, sempre  a costo di distruzioni e crolli, si renderà disponibile – non a caso è un pubblicitario – a sostenere il disastrato eroe in una necessaria operazione di cambio d’immagine. Basteranno un soggiorno in prigione, una conferenza stampa, alcune – esilaranti – lezioni di bon ton e finalmente l’adozione di un abbigliamento più consono rappresentato da  regolamentare tuta in pelle ? La prevedibile  redenzione del maschio afroamericano come Hollywood comanda, è dietro l’angolo. Hancock terrà fede al suo essere bizzarro e fuori dagli schemi, fino in fondo? Chissà. (rivelare il misterioso finale sarebbe delittuoso ). Un Will Smith, finalmente liberato dall’essere leggenda o cercare felicità, al meglio delle sue performances.  Effetti speciali a gogò, forse con qualche eccedenza. Ancora una bella metafora leggera ed autoironica dello Stato in cui versa l’Unione . Mentre il mito dell’Indistruttibile crolla, forse è meglio limitare i danni  attraverso  un cambiamento a tutto tondo. E se questo cambiamento è incarnato da un uomo di colore, tanto meglio.

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Hancock è un film di Peter Berg. Con Will Smith, Charlize Theron, Jason Bateman, Eddie Marsan, Jae Head, David Mattey. Genere Azione, colore 92 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Sony Pictures –

Paris vaut bien …

Paris vaut bien …

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Adesso non ricordo bene se poi Jacques Rivette  avesse sciolto il dilemma  tra  Paris nous appartient  e Paris n’appartient à personne. Ma, ipotesi proprietarie a parte, una  cosa è certa : fare un film su Parigi senza scivolare nel “già  visto”, è come ingaggiare  una lotta  disperata contro decine di cineasti, documentaristi, pittori, fotografi, poeti, romanzieri e chansonniers che l’hanno ritratta oramai in mille modi. E infatti non è che Cédric Klapisch, in questo suo Paris, riesca del tutto a eludere l’effetto immagine convenzionale, tra sequenze di Tour Eiffel,  Père Lanchaise, Marais,  Montmartre e Marché internationale de Rungis. Ciò nonostante,  sarà per via delle note di Gnossiennes numero 3 o per la bella fotografia widescreen  di Christophe Beaucarne : l’anima di Parigi, spleen compreso, in questo film, c’è tutta. Con ciò, si potrebbe azzardare l’ipotesi che  Klapisch non si sia affatto preoccupatomdi scadere nell’oleografico, mostrando di Parigi, a bella posta, ogni luogo canonico possibile. Come a volerne marcare la riconoscibilità. Regista di cult quali L’auberge espagnole – con relativo sequel Les poupées rousses –  e Chacun cherche son chat, oltre che di pregiati documentari ( Masai , Ce qui me meut  etc ), Cédric Klapisch, parigino di Neully sur Seine – quindi banlieu –   realizza  un film corale in cui un moltiplicarsi di personaggi incrocia storie e  destini, senza però che ciò comporti la necessità di far confluire ogni vicenda in un happy end o in qualsivoglia forzata quadratura. E se la città che fa da sfondo è un po’ di maniera, non lo sono altrettanto i personaggi : immigrati, signore annoiate, precari, manequinnes, homeless, architetti, dei quali si raccontano, gli amori, gli incontri casuali, le incomprensioni. Ritrovando sempre il regista , tra esuberanza e malinconia, il tono giusto per riflettere sulla caducità della vita e sulla felicità.   Un omaggio molto intenso a Parigi, città difficilissima, complicata, quasi ostica ma proprio per questo, sempre desiderabile. E bellissima.

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Parigi è un film di Cédric Klapisch. Con Juliette Binoche, Romain Duris, François Cluzet, Fabrice Luchini, Karin Viard, Albert Dupontel, Mélanie Laurent. Genere Commedia, colore 130 minuti. – Produzione Francia 2008

Le ali per volare

Le ali per volare

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Se la nuova compagnia avrà o meno le ali per volare, lo si vedrà di qui a poco . Al momento, l’intera operazione – politica e non di mercato – mette in pista un’azienda di trasporto aereo troppo modesta per poter reggere. I nuovi proprietari non potranno far altro che avviare un portage per traghettare, tra qualche tempo, la compagnia in mani più esperte. E se dovessero essere quelle di Air France che fino a pochi mesi fa, offriva due miliardi e mezzo, più si accollava i debiti, la beffa sarebbe completa. Molti dicono che l’Alitalia rappresenti una sorta di  paradigma di come vanno le cose qui da noi ed è vero, lo si è visto nelle piccole come nelle grandi cose. Nella gara scorretta e poco trasparente . Nella catena di conflitti d’interesse che si sono messi in moto. Nella trattativa sregolata. Nelle pesanti intrusioni del governo in ogni piega dell’operazione. Nel criminalizzare il dissenso dei lavoratori. Nella corsa finale ad accaparrarsi la medaglietta dell’Artefice Unico e, da ultimo, nel negare alla CGIL, dopo averla crocifissa, il merito di aver strappato in extremis i due protocolli d’intesa in cui si sancisce la necessità di ricollocare mille precari, la tutela dei salari del personale di terra, il recupero in produttività di quanto decurtato, e il resto dei chiarimenti attinenti al quadro normativo ( riposi, qualifiche, malattie). Non un’esaltante vittoria, visti anche i numerosi disoccupati e l’enorme costo per la collettività,  ma di sicuro un consistente miglioramento per centinaia di lavoratori e, non meno importante, il  recupero del meccanismo della trattativa che sembrava perso, tra  ricatti e ultimatum. Bonanni e Angeletti invece di minimizzare, dovrebbero riflettere : o il  senso di responsabilità concerne tutte le parti o produce rapporti insopportabilmente sperequati. Odioso fardello per ogni democrazia che si rispetti.