Il valzer della toppa
Il valzer della toppa – parole di Pier Paolo Pasolini, musica di Piero Umiliani- cantato da Laura Betti. Pier Paolo Pasolini ha scritto altre due canzoni “Cristo al Mandrione” e “Macrì Teresa detta pazzia”. Laura, che parlava un romanesco piuttosto stento, riesce egualmente a conferire vivacità indemoniata a questa canzone grazie alle sue grandi qualità d’interprete,cosa che invece Gabriella Ferri, che pure l’aveva in repertorio,non riesce a fare, probabilmente fuorviata da una lettura un po’ troppo melanconica del brano.La Toppa in romanesco è la sbronza leggera quella che regala un piccolo stato di ebbrezza,quanto basta per credere di essere felici.
Qui appresso invece il necrologio della Betti scritto da Pasolini, per gioco, nel 1971.
Pioniera della contestazione? Si, ma anche sopravvissuta alla contestazione. Quindi restauratrice di uno stata quo ante. Dove c’era i! pieno (l’ordine borghese e l’opposizione ufficiale), si è avuto il caos; caduto il caos, quel pieno è apparso come vuoto, e chi c’era dentro, a fare il buffone della protesta, si è trovato come in una stanza di cui fossero scomparse improvvisamente le pareti.
I popoli antichi rievocavano artificialmente il caos per “rinnovarsi”, ricostruendo il momento inaugurale. Il caos non passa senza lasciare la necessità di rinnovamento. Invece del rinnovamento si è avuta la restaurazione, con le squadre fasciste. Quel pupazzo che nel «pieno degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta» si è trovato ad essere vivo, ma strettamente dipendente dal mondo che egli, in quanto pupazzo, contestava, è poi stato travolto e vanificato dal caos del biennio dal 1968 al 1970, col ritorno della normalità ha verificato in sé l’accadere di un fenomeno molto comune: l’invecchiamento. La persona di cui sto in particolare parlando non ammette nulla di tutto questo.
È invecchiata e morta: ma son sicuro che nella sua tomba ella si sente bambina. Ella è certamente fiera della sua morte, considerandola una morte speciale.
Inoltre pur ammettendo in parte di essere morta, appunto perché la sua morte, essendo speciale, può essere ammessa, essa, nel tempo stesso, non l’ammette: «la mia morte è provvisoria, è un fenomeno passeggero», essa par dire, con l’aria di un personaggio di Gogol’, di Dostoiewsky, o di Kafka, «in alto loco si sta brigando perché tale noiosa congiuntura venga superata e tutto torni come prima. Del resto, io non ho soluzione di continuità: sono ciò che ero. La mia possibilità di stupore non ha limiti perché io cado sempre dalle nuvole, e rido, con meraviglia fanciulla». (Contemporaneamente, là nella tomba, dice: «Io non son mai nelle nuvole, son sempre coi piedi a terra, niente mi meraviglia perché, da sempre, so tutto».) Ambiguità? No: doppio gioco. Ché essa, la morta, Laura Betti, non era ambigua, anzi, era tutta d’un pezzo: inarticolata come un fossile.
Ella ha aderito alla sua qualità reale di fossile, e infatti si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda; (ma: «attenti, dietro la pupattola che ammette di essere con la sua maschera, c’è una tragica Marlene, una vera Garbo»).
Nel momento stesso però in cui concretava la sua fossilizzazione infantile adottandone la maschera, eccola contraddire tutto questo recitando la parte di una molteplicità di personaggi diversi fra loro, la cui caratteristica è sempre stata quella di essere uno opposto all’altro.
La sua grande fortuna è stata quella di avere evitato di vivere in uno dei tanti paesi dittatoriali che ci sono al mondo; e soprattutto di avere evitato di finire in uno dei tanti possibili campi di concentramento. Che terrificante vittima sarebbe stata! Ma in un necrologio non si dicono queste cose.
Facendo di lei un esame superficiale, molti le attribuirono in vita una volontà provinciale di degradazione degli idoli. No, non era soltanto il sadismo di una provinciale che giunta nel Centro dove abitano gli idoli, prova il piacere di profanarli e di dissacrarli: in questa dolorosa operazione c’era il suo bisogno di essere contemporaneamente “una” e “un’altra”, “una” che adora, e “un’altra” che sputa sull’oggetto adorato; “una” che mitizza e “un’altra” che riduce. Ma non era ambiguità, ripeto. Il suo gioco era chiaro come il sole.
Naturalmente, proponendosi prima di tutto, come una delle leggi-chiave del suo codice, di non fare mai, in alcun caso, pietà, essa, per il gioco dell’opposizione, ha anche sempre voluto e ammesso anche di fare pietà. Ma la pietà non è stata causata da una o dall’altra delle sue azioni o delle sue situazioni: no, essa è sempre stata causata dall’eccessiva chiarezza del suo gioco. Dunque è attraverso la pietà che essa è stata costretta a provocare verso la sua persona, che è venuta fuori la sua generosità: cioè qualcosa di eroico. Questo è infatti il necrologio di un’eroina. Bisogna aggiungere che era molto spiritosa e un’eccellente cuoca.
Pier Paolo Pasolini
Da “Vogue” Milano 1971