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Tag: La fabbrica del cinema

Toh…un film

Toh…un film

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Veramente ce n’è in giro un altro paio,  forse tre, ma diciamo che dopo il Festival di Roma e qualche settimana di quaresimali passati  in sala a sciropparsi inutili visioni, questo Rachel Getting Married, potrebbe rimettere in pista il piacere di andare al cinema. Dunque, qui abbiamo Anne Hataway, già sulla via della disintossicazione da ruoli zuccherosi di aspiranti principesse, aspiranti donne in carriera, aspiranti giornaliste,  subito dopo Havoc di Barbara Kopple, in cui tra parolacce e versi di Jay – Z e Tupac, completava il quadretto della bad girl, dedicandosi anima e corpo  al sesso svelto e al crack. Una grande riabilitazione.

Che prosegue con  Rachel getting married, dove  interpreta il ruolo del corpo estraneo, della pecora nera, il cui momentaneo ritorno in famiglia per il  matrimonio della sorella maggiore, provoca tensioni, alimenta nevrosi e  scombussola equilibri, come si conviene ad una vera problem child  che oltretutto custodisce assieme ai suoi un terribile segreto.

Ma soprattutto abbiamo Jonathan Demme, regista indipendente dalla eclettica traiettoria artistica che per raccontare la festa di nozze di un uomo d’affari di colore con una ragazza bianca della media borghesia agiata e liberal dell’East Coast, convoca sul set  una bella combriccola di amici, compagni e familiari che poi sono il  poeta sino-americano Beau Sia,  attori come Anna Deavere Smith, cineasti del calibro di Roger Corman e Anisa George, musicisti world,  iracheni, greci e palestinesi, solisti alla chitarra (come suo figlio Brooklyn) e amici delle Pantere nere (come il cugino Bobby ). Più una scuola di samba a ravvivare le coreografie.

Aggiungi,  in un simile contesto, una colonna sonora con  i ritmi di Zafer Tawil e altri  sound  – del jazzista Donald Harrison jr., del percussionista arabo d’America Johnny Farraj con il suo ria, del trombettista iracheno e suonatore di santoor Amir Elsaffar, della vocalist siriana Gaida Hinnawi, con la sua personale interpretazione del maqam arabo, del pianista greco Dimitrios Mikelis – e la parata transculturale, pre elezione di Obama ed in suo onore, come da dichiarazioni veneziane, è servita.

Intanto piccoli miracoli compiono, la camera a mano ( spesso digitale) che si lancia nella mischia dei festeggiamenti o irrompe in casa e le riprese in tempo reale. Demme non vuole che il pubblico sia fuori del film . E riesce nell’impresa di non escluderne mai la presenza.

Così mentre il  microcosmo familiare si scompone e si ricompone, tra gare di crudeltà verbale  e boxing match tra consanguinei , è impossibile che l’elemento multirazziale, nemmeno troppo di sottofondo, appaia per quel che è : la vera risorsa contro lo sfascio del Sistema America.

Regole narrative saggiamente scombinate da  Jenny Lumet, figlia di Sidney, sceneggiatrice di talento, ricercata e fantasiosa. Una delle felici scoperte di questo film.

Niente premi a Venezia. Ingiustamente.

 

 

Rachel sta per sposarsi (Rachel getting married ) è un film di Jonathan Demme. Con Anne Hathaway, Rosemarie DeWitt, Mather Zickel, Bill Irwin, Anna Deavere Smith.

Drammatico, durata 114 min. – USA 2008. – Sony Pictures

 

L’esangue spettatore

L’esangue spettatore

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Finalmente si è potuta evadere anche la pratica  Sangue dei vinti, il film – quantunque adeguatamente  finanziato e di futura programmazione RAI – più perseguitato della storia. Appurando così, l’esausto  spettatore che non già per le incredibili anticonformistiche rivelazioni sulla resistenza o per il punto di vista repubblichino, il lavoro non convinse selezionatori e direzioni artistiche, ma perchè se un ‘opera è fatta per essere mostrata a puntate in televisione, ha ritmi, linguaggi, stili che al cinema mal si adattano. E questo accade  qualunque  sia il governo del Paese, della Città, della Mostra o del Festival. Nemmeno un’intellighenzia meno persecutoria, ideologizzante e (filo)partigiana, potrebbe modificare queste elementari regole ortografiche. Dunque, quando Il sangue dei vinti sarà in televisione, con i suoi cinquanta minuti e passa in più rispetto alla versione per le sale, sarà forse possibile che gli aspetti didascalici, melensi, gli schematismi, i simbolismi, le sbavature, sembrino meno accentuati (e stridenti). Bello il Dibbbattito, ma che si tratti di film o di governativi decreti, sarebbe bene non perdere mai di vista il merito, il contendere, invece di  cercare preventivo rifugio in argomentazioni pretestuose che allontanano, piuttosto che incaricarsene, dalla qualità di un film o dalla efficacia di un provvedimento. Quand’è così viene sempre il dubbio che dietro alla cortina fumogena ci sia ben  poco. E difficilmente ci si sbaglia.

History repeat itself …

History repeat itself …

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Film dal languente Festival di Roma – dove gli unici sussulti sono dati dalle visite dei contestatori – offerto  in patinata confezione, come  da budget milionario,  e con  interpreti tra i più applauditi, in Germania e non solo –  Martine Gedek e Bruno Ganz, tanto per dire  – Sceneggiatori, Bernd Eichinger e lo stesso regista Uli Edel, tedesco ma residente a Los Angeles, autore di Christiane F e Last exit in Brooklyn , nonchè di miniserie televisive di successo. Falsariga, quella di un libro Der Baader Meinhof Komplex  di Stefan Austen, collaboratore, insieme alla stessa Ulriche Meinhoff della rivista politica  Konkret, storico e giornalista di Der Spiegel,  testo molto celebrato per precisione ed attendibilità.

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Il proposito  è quello di raccontare la vicenda della Rote Armee Fraktion, la formazione guidata da Andreas Baader e Ulriche Meinhof, attraverso il decennio che va dal 1967 al 1977.  Cioè dalla nascita del movimento studentesco, fino al rapimento e all’esecuzione di Hans Martin Schleyer. 

 Preoccupazione dichiarata degli sceneggiatori, quella  di rendere comprensibile il film a tutti, evitando nel contempo  possibili coinvolgimenti emotivi e pericolosi transfert. Di qui una curiosa e funambolica operazione di rimaneggiamento, da una parte la modifica dei linguaggi per adattarli a quelli dei giorni nostri, dall’altra, la scoloritura dei personaggi, dei quali s’ignora la psicologia, preferendo concentrarsi su versanti e atteggiamenti di assoluta marginalità.

La Baader Meinhoff così  ridotta diventa poco più  di una banda di ingenui, farneticanti sognatori, cool e spaventosi ad un tempo, passati dai movimenti antimperialisti tedeschi alla lotta armata, non si capisce bene attraverso quali considerazioni. Percorso classico nella rappresentazione del tempo in cui le  battaglie, secondo lo stereotipo narrativo, nascevano sacrosante e votate alla costruzione di una società migliore,  per poi degenerare attraverso il ricorso alla violenza, in catene di orrendi delitti, quasi fosse fisiologica ed ineluttabile quell’evoluzione.

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Quando invece è risultato chiaro, che scelte radicali, consapevolmente responsabili  di atrocità,  non possono non maturare in  contesti che la pura enunciazione dei fatti non è sufficiente a definire. E sono proprio questi contesti che, nonostante la puntualità del susseguirsi cronologico degli avvenimenti, mancano al racconto. Vuoi perchè sfigurati per renderli accessibili, vuoi per evidente omissione, nella dichiarata pretesa di rincorrere un’ impossibile obiettività.

Dunque la  premessa degli autori di aver voluto realizzare un’opera dei fatti e non delle opinioni, rivela un fondo di ambiguità. Più onesto sarebbe stato enunciare una propria esplicita visione delle cose, esponendola così alle critiche, alla discussione, ovvero lasciare che interrogativi si ponessero : su come si dipanarono i rapporti con Fatah, sulla morte per presunto suicidio di Baader e Ensslin nel carcere di Stammheim, su quella di Holger Meins, e della stessa  Ulriche Meinhoff.

Domande pertinenti, che però  condurrebbero dirette all’analisi della società tedesca di quel tempo, ma appurando, ovvero smentendo, fatti quali  la durissima  repressione, la permanenza negli apparati statali di uomini del’ex regime di Hitler e le nemmeno troppo presunte, infiltrazioni  neo naziste in RAF, finanziatrici peraltro di addestramenti militari in Giordania nei campi dei feddayn. Tanto più che il film mostra Ulriche Meinhof in quei campi e  che tali personaggi sono ancora vivi e vegeti e qualcuno finanche figura tra gli esponenti di spicco del partito neonazista svizzero.

Gli autori hanno preferito sfornare un prodotto di sicuro successo, in cui non mancano sensazioni forti date da scene ad alto tasso adrenalinico di scontri e  sparatorie, con qualche ricostruzione di fatti, come l’attentato a Rudi Dutschke e l’uccisione dello studente  Benno Ohnesorg durante le cariche avvenute in occasione della visita dello scià Reza Pahlevi a Berlino.

Ma se ci  si allontana  dal porsi questioni,  buoni, cattivi, inseguiti e inseguitori vittime e carnefici – tutto diventa chiaro ! – sono immediatamente riconoscibili . Solo così alla fine il Bene può trionfare. Epurata da ogni elemento controverso e priva di dramma, l’operazione può risultare più pericolosa di un’ insensata apologia del terrorismo. Siamo solo a qualche passo dalla fiction, un prodotto  fruibile comodamente da casa, chiacchierando con gli amici. Non a caso in Germania la RAF, mitizzata e resa paradossalmente inoffensiva, dalle troppe rimozioni, è tornata in  auge, ispira linee di moda e cosmetici per giovani rivoluzionari , perchè come avverte in esergo il sito più “cool" 

 

 

History repeat itself  first a tragedy then as fashion

 

La banda Baader Meinhof è un film di Uli Edel. Con Martina Gedeck, Moritz Bleibtreu, Bruno Ganz, Alexandra Maria Lara, Johanna Wokalek, Nadja Uhl, Jan Josef Liefers, Stipe Erceg, Hannah Herzsprung, Heino Ferch. Genere Drammatico, colore 149 minuti. – Produzione Germania 2008. – Distribuzione Bim

 

Tre donne e una Pontiac

Tre donne e una Pontiac

Quel che resta di Joe, non è certo tutto nell’urna cineraria che invano sua moglie Arvilla ha tentato di sottrarre –  obbediente alla volontà del consorte – alla pretesa di un funerale californiano con tutti i crismi ( che laggiù sono parecchi).

A reclamarne la degna sepoltura è una figlia del defunto che più antipatica e scostante non si potrebbe. E ricattatrice per giunta. O il funerale a Santa Barbara, o niente casa in Idaho, quella dove Arvilla e Joe hanno vissuto per lungo tempo. Cedere, pur dolorosamente, si dovrà cedere, e sarà  infatti questo, il motivo all’origine del viaggio, ovvio protagonista di Quel che resta di mio marito, come del resto, di  ogni altro film o romanzo o racconto on the road che si rispetti.

Complici dell’operazione di condurre l’urna all’inflessibile figliola, saranno le due migliori  amiche di Arvilla. Il mezzo: una Pontiac convertible “Bonneville” del 1966, rossa, un sogno americano di automobile d’epoca,  oggi raggiungibile per la non esorbitante somma di ventimila dollari. Percorso : da Pocatello (Idaho) a Santa Barbara  (California ) attraverso il Nevada dei deserti, dei laghi, delle pianure salate, panorami mozzafiato, una degna cornice alla vicenda.

Ma prima di passare a quanto di eccitante e commovente  accadrà along the way, sarà bene precisare che in tutta questa vicenda, Thelma & Luise, stracitate raccordandone l’impresa a questo film, ovunque se ne sia scritto o  parlato , c’entrano pochissimo. Vanno bene l’avventura al femminile, le decappottabili, il vento tra i capelli ( o il foulard con gli occhiali da sole) e qualche analogo paesaggio o sperduta pompa di benzina, ma la direttrice di marcia, è orientata in direzioni opposte e laddove c’era un viaggio – fuga  di sola andata, con marcia trionfale verso il precipizio, qui abbiamo un viaggio di solo ritorno, proprio quel che il cinema predilige. Proprio quel che il cinema infondo è.

Dunque, in spregio dell’imperativo filiale, si spargeranno lungo il tragitto piccole quantità delle spoglie mortali  di Joe nei luoghi in cui è stato felice con sua moglie, rabboccando segretamente  l’urna con sabbia raccattata in giro e lo spirito con i ricordi,  allietandosi l’esitenza delle due amiche quella single controvoglia con camionista e gentiluomo dal sorriso irresistibile, ovvero cedendo l’altra, religiosa ed intransigente, poco alla volta alle gioie di qualche innocente trasgressione.

Pertanto qui si procede verso la meta, non perdendo via, via i pezzi, ma rimettendoli insieme e coltivando Arvilla, sin la speranza di far capire alla figlia di Joe, il senso della parola data.

Attrici eccezionali per questo film dell’esordiente, o quasi, Christopher Rowley che giustamente molto investe sulla loro recitazione. Jessica Lange, incurante degli anni  e incredibilmente  radiosa, Kathy Bates, incurante del peso e irresistibile nella sua ricerca di un uomo che di lei sappia apprezzare spirito e verve e Joan Allen, incurante dell’eterno ruolo di cattiva, a disegnare un personaggio che partendo dalla distribuzione di bibbie arriva  a destinazione dopo aver acquisito ben altre divine consapevolezze.

Inevitabile qualche sbavatura, dati il tema della morte  e del distacco, tuttavia sopportabile grazie al tono di prevalente ironia. C’è tanto dell’ american way of life  sia negli atteggiamenti più liberi che in quelli più rispettosi o desiderosi di regole. Entrambi distanti dal nostro stile di europei, quindi meglio astenersi dal valutare con  metri di giudizio che si rivelerebbero inadeguati. A parte l’universale considerazione che poi tutto finisce in cenere.

Quel che resta di mio marito è un film di Christopher N. Rowley. Con Jessica Lange, Kathy Bates, Joan Allen, Tom Skerritt, Christine Baranski, Victor Rasuk, Tom Amandes, Tom Wopat, Bruce Newbold, Kristin Marie Jensen, Ivey Mitchell, Evan May, Erin May, Laura Park, Lyn Vaus, Amber Woody, Skip Carlson, Steve o’neill, Arabella Field, Nancy Roth. Genere Commedia, colore 93 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Teodora Film

Il trucco è …

Il trucco è …

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Ultimo film della trilogia europea, anche se  questa volta non sono  le cupezze dei delitti senza castigo o del sesso in funzione della scalata sociale, bensì lo spirito della pochade combinato con quello della commedia libertina, a dominare la scena.

Così, prima del rientro negli USA, Woody Allen  ci offre una visione della vecchia Europa come continente a parte, sui generis, rispetto all’America delle persone normali, degli Umani, divertendosi non poco  a giocare sulla falsariga dei derivanti stereotipi culturali. Americans abroad concreti e noiosetti a confronto con iberici calienti e dunque tutto quel che consegue in termini  di spregiudicatezze vacanziere, baci saffici e menàge a variabile  definizione geometrica.

 Ma niente paura, non sarà certo l’rruzione di Javier Bardem nel ruolo dell’Oggetto del Desiderio o dell’esplosiva Penelope Cruz,  ne’ la paventata ipotesi di  una delle fantasie erotiche più frequenti dell’immaginario maschile, a cambiare il corso delle cose. Alla fine ognuno tornerà a casa più o meno come se nulla fosse accaduto. Sarà pure l’amore ai tempi dell’Indecisione ma poi il relativo ondivagare si sa benissimo che piega è destinato ad assumere.

Dialogo fitto, serrato che qualcuno ha definito invadente, come pure è stato detto della voce fuori campo. Ma è Allen, il suo cinema è sempre un po’ verboso, quand’è così, è difficile tenere la barra dritta, senza sconfinare nel territorio del didascalico. E poi… dopo tanto dostojestizzare, infine si torna a sorridere sulle turbolenze del rapporto uomo donna. Anche se la Johansson continua – bravissima e prediletta dalla macchina da presa – a interpretare il ruolo di alter ego di Woody Allen qualunque sia – altro che musa – la storia che si sta rappresentando.

 Decisivo e generoso il contributo di Penelope Cruz e Javer Bardem, i veri Beni Culturali, da apprezzare insieme a Gaudì, Mirò, il Rioja e alle note della canzone Barcelona. Del resto il film è stato finanziato dagli spagnoli, anche con l’intenzione di valorizzare la città insieme alla clausola che il nome della stessa,  comparisse nel titolo. Verificati gli accordi,  non ci resta che prendere atto dell’ imperdibile quanto necessaria,  lezione  di Juan Antonio  (Bardem ) : Il trucco è godersi la vita senza cercare un senso.

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Vicky Cristina Barcellona, è un film di Woody Allen. Con Scarlett Johansson, Penelope Cruz, Javier Bardem, Rebecca Hall, Patricia Clarkson, Kevin Dunn, Chris Messina, Julio Perillán, Manel Barceló, Josep Maria Domènech. Genere Commedia, colore 90 minuti. – Produzione USA, Spagna 2008. – Distribuzione Medusa