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Forever young

Forever young

Si scriverà nei prossimi giorni di Fernanda Pivano – che aveva l’inglese nel sangue – delle sue traduzioni : il Grande Gatsby, Addio alle armi, Antologia di Spoon River, Non si fruga nella polvere, l’Urlo, Sulla strada  ed altre ancora, della sua infaticabile attività di  critico, autorevole e –  rarità –  sempre disponibile a capire e sostenere le opere dei giovani e nuovi scrittori.

Personalmente a Nanda Pivano devo l’opera di Bret Easton Ellis, sei libri da perdere la testa, nei quali non a torto, aveva riconosciuto l’eredità di Faulkner, di Hemingway e di Scott Fitzgerald. Ma soprattutto di lei  ho sempre  apprezzato la  capacità di entusiasmarsi e di  trasmettere entusiasmo, un tratto inossidabile, resistente al tempo e agli eventi,  come quel  suo essere  sempre pronta ad abbracciare della vita, ogni  possibile aspetto.

Eternamente giovane, si dice che fu proprio lei a introdurre in Italia quella canzone di Bob Dylan. Non so se sia vero, so solo che niente avrebbe potuto somigliarle di più.

Nell’illustrazione del Corriere della Sera con Peter Orlovsky, Allen Ginsberg e Gregory Corso

Il montaggio è tutto!

Il montaggio è tutto!

Sarà che l’ interdisciplinarità  resta per me, oltre che un insostituibile ferro del mestiere, un assillo al quale sono particolarmente affezionata, sarà che l’idea di un ritratto del Novecento da costruire, attraverso un ‘operazione di vero e proprio montaggio – in senso cinematografico, sì – di brani letterari, filosofici, teatrali, musicali  oltre a quadri, fotografie e spezzoni di film, è incredibilmente attraente, vitale  e consona all’arco di tempo in questione, sarà che nel lavoro di collazione, la possibilità di abolire ogni tipo di gerarchia operando su interferenze ed attriti oltre che su associazioni, trasforma  il Novecento da secolo per definizione  breve a secolo interminato e (per vocazione) interminabile…

Saranno tutte queste cose messe insieme, ma la lettura – che poi non è solo lettura – di questo Ritratto del Novecento, mi ha fatto seriamente rimpiangere il non aver avuto modo di partecipare alle quattro serate dedicate rispettivamente alla Psicologia, al Montaggio, alle Avanguardie e alla Lotta di classe, tenutesi a Bologna dal 12 al 16 dicembre 2005 e il 2006,  di cui questo libro raccoglie i materiali preparatori.

Dunque in sessantotto tessere numerate sono contenuti cento interpreti – non i più importanti, secondo Sanguineti ma i più tipici – delle arti  figurative o della letteratura, della musica da  mescolare arbitrariamente ed assemblare in  infinite possibilità di mosaici o performances multimediali  (dai quali inevitabilmente discendono altrettante possibilità di  lettura.)

Il libro, ricca prolusione a parte, non ha testo, ma contiene, tessera dopo tessera,  l’indicazione dei brani o dei testi utilizzati nelle giornate di Bologna, con avvertenza che sia gli autori che i brani o le immagini, possono essere sostituiti ovvero se ne possono aggiungere altri, seguendo il filo di connessioni o rimandi che possono manifestarsi in corso d’opera  . Un manuale aperto dunque, per la scuola, si direbbe, ma anche per i teatri, per il cinema nonchè per personali tragitti esplorativi.

Qui di seguito un esempio. E’ tessera n. 43 ( Montaggio) dalla quale mancano  immagini filmate o fotografiche (che invece abbondano in altre tessere) sostituite da una particolare selezione di dipinti di Chagall.

Preludio : i primi minuti di Schelomò per violoncello e orchestra di Ernest Bloch

Lettura di cinque poesie di Nathan Zach :

– Il Cammello di Re Salomone

– Sfavorevole agli addii

– La forma e il paesaggio

– Nessun clamoroso cambiamento

– Confessione

Durante la lettura dei versi sullo schermo vengono proiettate diapositive ricavate da opere di Chagall

– Il violinista

– La donna incinta

– La passeggiata

– Il violinista verde

– La sposa dai due volti

– La fidanzata dal volto blù

– Il guanto nero

– l’Occhio verde

– Resistenza

– Liberazione

– Al crepuscolo

– Sogno di una notte d’estate

– La Guerra

– Il Matrimonio

– Le Luci del matrimonio

– Notturno

– La notte verde

– Autoritratto.

Nelle illustrazioni, due quadri di Chagall della selezione, Il violinista verde e la Passeggiata, (quest’ultima incantevole)

Ritratto del Novecento è un libro di Edoardo Sanguineti  curato da Niva Lorenzini ed edito da Manni

 

The way we were

The way we were

Succede a Fabrizio de Andrè quel che già successe con Jacques Brel, chansonnier e compositore di grande talento, anarchico e, quanto a descrizione di quell’ambiente borghese che fin troppo bene conosceva, assai più arrabbiato e cattivo di quanto Georges Brassens con i suoi  liberatori Mort aux vaches, Mort aux lois, vive l´anarchie! riuscisse ad essere.

Anche nel caso di Jackie c’è una Fondazione molto attiva e guidata con mano ferma ed avveduta da una figlia piuttosto sensibile alla problematica del copyright, come pure non si contano le mostre, le commemorazioni, gli spettacoli di artisti famosi e meno, che in ogni parte del mondo interpretano  le sue canzoni. Jacques Brel è cantato in cinese, in russo, in giapponese e persino in creolo.

Ovviamente in una simile gigantesca appropriazione, il mercato si guarda bene dal fagocitare i testi più sovversivi e il povero Brel con i suoi circa duecento brani, viene identificato con Ne me quitte pas, al più con la Chanson des vieux amants. Altrettanto ovvio il tentativo di traghettare l’autore de Les Bourgois, de Les Bon bon de Les singes o di Jaures in territori artistici assai più tranquilli di quelli in cui effettivamente navigava, ovvero di farne un cantante per famiglie o per nostalgici  di mezza età.

A seguire i racconti di radio e televisione o dei  giornali che celebrano, in questi giorni,  il De Andrè poeta, intellettuale, maître à penser – a volte  pare che non se ne è avuti altri – anche attraverso accenni agli anni in cui è vissuto, sembra tutto facile, piano. La rivolta delle giovani generazioni, il tragitto artistico del cantante antagonista, tutto sembra essere appartenuto ad un fluire  spontaneo, lieto  e senza intoppi. Eventi in successione, posti su  binari ben oliati, tra il generale plauso per la spazzatura e i fiori delle Suzanne o per la vocazione al trionfo e al pianto delle Giovanne D’Arco.

Meno male  il Caso che invece proprio ieri, ci ha offerto l’opportunità di ricordare in quale clima, in quale paese si è invece sviluppato il lavoro di Fabrizio De Andrè. Anni non semplici in cui le pantere che ci mordevano il sedere non appartenevano solo alle forze di polizia ma potevano anche chiamarsi SISDE o che so io. Ed ecco che il Com’eravamo assume una connotazione meno festosa e gaia e anche al Vate De Andrè scolorano un po’ i tratti, divenendo meno universali  e condivisibili da ognuno.

Tuttavia, a meno di stecche o interpretazioni incolori, non sono tra quelli che si lamenteranno mai perchè a Samuele Bersani o a Tiziano Ferro, questa sera all’interno della trasmissione di Fabio Fazio, saranno affidate rispettivamente le esecuzioni del Bombarolo e de Le Passanti ( per queste ultime, eventualmente si lamentino anche i Brassensiani). Dispiaccia o no, il meno siamo e più ci divertiamo, riferito all’arte o alla musica o alla Conoscenza in genere, è un modo un po’ provincialotto e demodée che ancora sopravvive in minuscole congreghe dedite esclusivamente alla riproduzione di se stesse. Se un solo fan di Tiziano Ferro stasera, butterà dentro il motore di ricerca la dicitura Storia di un impiegato o il nome Georges Brassens ne sarà valsa la pena. De Andrè vive e questo è uno dei modi per cui resti vivo a lungo.

Ma la verità su quegli anni non può essere estromessa dal pacchetto divulgativo delle celebrazioni, altrimenti i conti non tornano. Dai diamanti non nasce niente non è verso  che viene dal nulla dal letame nascono i fior non sono cose queste da mamme, da nonne e da zie.

Foto di Piero De Marchis (il sito è creuza de ma)

De Andrè vive

De Andrè vive

Deandrevivo
Dire di Fabrizio de Andrè all’epoca delle celebrazioni nel decennale della scomparsa, è l’impresa che è.
Poichè tutto è stato scritto, cantato, filmato, mostrato in mille iniziative, libri e trasmissioni, il senso delle cose rischia di sfumare nella ripetitività, il valore artistico nella mitizzazione, lo spessore civile ed umano
nel racconto di episodi spezzettati  e scollati dalla  coerenza del tracciato biografico.
Riti funebri, in qualche caso, che mal si addicono alla vitalità intrinseca di un’Opera che sembra invece fatta per durare alimentando altre opere, altre riflessioni. Col tempo tuttavia, s’impara a leggere nell’entusiamo inspiegabile di chi  era troppo giovane per apprezzare la sua musica, un tratto di affetto piuttosto singolare, per quello che in definitiva, è un cantante del passato. Anche in certa venerazione da vecchi fans, patiti dei ricordi, sopravvive nonostante gli sguardi perennemente rivolti all’indietro, lo stesso tratto di autentico sentimento.

De Andrè è vivo ( e resiste al processo di beatificazione). E’ scritto con due esclamativi su di un muro assai fotografato, con A anarchica cerchiata, griffe e insieme omaggio all’ Ideale di sempre.
E dunque, se così è, celebriamolo da vivo.

In questi giorni  per esempio,  è quasi impossibile non pensare a Sidùn – Sidone – rappresentata come un uomo arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato e questo accade per la stessa ragione per cui tempo addietro in occasione di alcune poco brillanti iniziative del governo, venivano alla  mente Korakhanè, Bocca di Rosa o Princesa.

Non tanto per loro, i personaggi, quanto per l’inalterato clima di sotterranea  o esplicita violenza che ancora avvolge le storie degli ultimi, dei diversi. Violenza dei provvedimenti, di sicuro –  dunque emanazione diretta del Potere –  che però interpreta un comune sentire al quale andrebbero assimilati  i molti ma e se di Insospettabili, che nel corso del tempo sono andati ad ingrossare le fila di maggioranze non più silenziose.

Non serve pertanto nell’esercizio vagamente  necrofilo del cosa avrebbe detto, interrogare chi purtroppo non è più. Ne’ esaltarne – altro tic – le capacità profetiche. Piuttosto prendere atto che collocarsi dal lato opposto a quello da cui spira il vento, rappresenta non solo un’occasione di riscatto, ma consente un punto di osservazione che io definirei alla giusta – ancorchè non prudenziale –  distanza, mai eccessiva da esimersi di cantare l’astio e il malcontento, ne’ troppo ravvicinata ad evitare contaminazioni che depotenzino e asserviscano il canto.

Solo questa postazione probabilmente, consente di guardare oltre i singoli episodi, le dinamiche spicciole. Non il prevedere dunque, dei maghi, dei santoni o dei profeti, ma il semplice vedere possedendo nel contempo il generoso talento di saper mostrare agli altri.
In aggiunta, le molte lezioni impartite senza averne mai l’aria,  tutte derivanti però da un’ unica radice : il pensiero libertario.
Resistente ai cedimenti dell’ideologia, dilagante  dalla prima canzone fino all’ultima e nella scelta mirata dei brani di altri autori da tradurre, adattare, riportare a nuovi significati. La vera spina dorsale di tutta la sua produzione è in quella Idea.
Fabrizio De Andrè si è insinuato nel nostro modo di pensare prima ancora di essere parte dei nostro bagaglio sentimentale, anche per questo il piombo fuso di Gaza ci riporta al dramma di Sidone...euggi di surdatti chen arraggë cu’a scciûmma a a bucca cacciuéi de baëa scurrï a gente cumme selvaggin-a finch’u sangue sarvaegu nu gh’à smurtau a qué

e alla breve chiacchierata che accompagnava l’esecuzione del brano nei suoi concerti :

La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.

Sono anch’io tra quelli che gli vogliono bene. Mille anni e mille anni ancora

 


Lampo

Lampo

Una piccola notazione,per il fortunato lettore della Folie Baudelaire, libro non  semplice, ma solo perchè siamo sempre meno abituati ad esplorare i territori del pensiero complesso. Per giusto contrappasso però,la scrittura è nitida, scorrevole, naturale, anche se le citazioni sono davvero tantissime e richiedono qualche andirivieni tra  motore di ricerca, reminescenze e scaffali di casa – diciamo  quelli posizionati nelle parti alte –  Poco male. Quando si chiude il libro, la sensazione di aver aggiunto al proprio bagaglio qualcosa, è netta e vale quel piccolo impegno.

 Il cuore, in ogni senso, dell’Opera è quello che Calasso chiama   lampo analogico, lo stesso che ha ispirato la cultura europea dai suoi inizi, segnando specialmente il Rinascimento e il diciannovesimo secolo. Un metodo d’indagine sicuro, da preservare in epoca di frantumazione ( del pensiero  ma anche delle relazioni).

Lampo dunque, racchiudendo la bella  parola in sè, gli esiti di un entusiasmante tragitto tra connessioni interdisciplinari ed intuito. Analogo significato è nascosto in questi versi : 

La natura è un tempio dove colonne viventi
lasciano talvolta uscire delle confuse parole
l’ uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l’ osservano con sguardi famigliari.
Come lunghi echi che da lontano si confondono
in una tenebrosa e profonda unità,
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono

Baudelaire

Il sogno di Baudelaire, l’unico che si conosca, è la vasta rappresentazione di un bordello che è anche un museo. Il labirinto dell’inconscio funziona come una sorta di Esposizione : nelle sale si susseguono, Ingres,  Delacroix, Degas, Manet, Rimbaud, Proust, Baudelaire, Constantin Guys, Berthe Morisot, Mallarmè, Flaubert, Sainte-Beuve. Opere sublimi ma anche artisti e critici minori degni di nota ovvero pura e semplice paccottiglia. (e mentre una folla si accalca intorno alle rappresentazioni, sullo sfondo si manifesta per un istante Napoleone III, che non dice mai niente, e mente sempre)

Calasso, che di questo gioco dell’ immaginario è la guida, conosce minuziosamente  tutto quello che è avvenuto, che è stato scritto e dipinto in Francia dal 1830 al 1900 e ne propone di quando in quando interessanti digressioni. Siamo tuttavia ben lontani dalla banale esposizione di un erudito. Accostamenti continui tra un poeta e un pittore ovvero tra una poesia e l’ articolo di un giornale di moda, rivelano audacia e tutt’ altro approccio. 

Centro dell’attenzione è il Baudelaire scrittore di articoli e saggi su Delacroix, Gautier, Constantin Guys, Poe. Tutta la Folie Baudelaire  risente del suo punto di vista e del suo modo di sentire , ricercando Calasso con Baudelaire, una sorta di immedesimazione, particolarmente quando osserva  i personaggi o le figure mentali del proprio tempo. Ad un certo punto sarà Paul Valéry a sostituirsi a Baudelaire, il libro cambierà passo, forse perderà qualche nota di  entusiasmo, ritrovando  però, in cambio, una sorta di logico compimento.

 Valéry si augurava che un giorno potesse esistere una Storia Unica delle cose dello Spirito, che avrebbe sostituito ogni storia della filosofia, dell’ arte, della letteratura e delle scienze. Da allora – scrive Calasso –  la storia analogica non ha fatto molti passi avanti. Rimane un desiderata sempre più urgente in un’ epoca debilitata come la nostra.

Dunque la Folie Baudelaire è il tentativo di realizzare questo desiderio adottando come principale strumento interpretativo il lampo analogico di cui si è detto . Un’operazione coraggiosa, anche questa alla maniera di Baudelaire che non scriveva trattati ma al quale era sufficiente un cenno, nascosto in una considerazione sulla pittura, la letteratura o la politica, per cogliere, nuda, abbagliante, la verità metafisica.

 

 

E ancora, prosegue, Calasso a ribadire il concetto : Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare un pensiero. Da lì, se si abbandonava al suo rapinoso automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque

La Folie Baudelaire è un libro di Roberto Calasso edito da Adelphi