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Mese: Agosto 2008

Lei

Lei

Georgia 04

La ramazza poggiata in un angolo le deve essere  servita ad attenuare il senso di devastazione e di angoscia che segue la visione del disastro. Una fatica, quella di ammucchiare i detriti negli scatoloni che può sembrare ridicolmente inutile, in specie dopo il passaggio dei raid aerei. Tanto più che la foto è stata scattata ieri l’altro, in pieno conflitto. Ma quella corvée obbedisce alla sua ansia di un barlume di normalità  e contemporaneamente imprime in concretezza, la cifra del suo essere in ogni caso presente. L’unica pratica che, qualunque cosa accada, le rimane fedele è la cura della casa e dei suoi. Cercare di ripristinare un po’ d’ordine, le deve essere sembrato un passaggio indispensabile a qualsiasi ripartenza. Non so se la donna che siede al centro di questa stanza, sia osseta, georgiana o cosa, ne’ è importante conoscere quale tipo di bombardiere le abbia procurato tanto dolore. So che la non richiesta compostezza di questa autentica vittima di un congegno infernale, incute rispetto. Vorrei inviare migliaia di copie di questa foto ai patiti degli schieramenti, del Risiko Internazionale, degli scacchieri e dei nuovi confini tra oriente e occidente. E naturalmente ai negoziatori, che abbiano sempre innanzi agli occhi la concreta sofferenza delle vittime.

Morire per Tblisi ( e in mezzo scorre l’oleodotto)

Morire per Tblisi ( e in mezzo scorre l’oleodotto)


Sembrano nomi di granducati da operetta – la zona oltretutto sarebbe quella giusta – e invece  Abkhazia e Ossezia del sud, le due enclave filorusse in territorio georgiano, sono state parte di una tragedia più generale, le cui vittime ( morti, feriti, profughi ) utilizzate fin qui a scopi puramente propagandistici,  non hanno turbato troppo le nostre coscienze democratiche, sempre così ben disposte, quando si tratta  esecrare, condannare, manifestare contro l’aggressione di uno stato sovrano.  Si registra invece, ma c’era da aspettarselo, una grande rinascita di esponenti filorussi,  nuovi e vecchi che si danno un gran da fare a tessere l’elogio di Putin con dichiarazioni trasversalmente – da Lamberto Dini a Marco Rizzo –  rabbrividenti. Si va dal Putin che contrasta il processo di occidentalizzazione  e restituisce al paese le risorse economiche e strategiche che gli oligarchi di Eltsin gli avevano sottratto, alla teoria che vorrebbe gli USA accerchiatori della Russia con paesi  partner della Nato, fino alla speranza espressa in un comunicato di Fiamma Tricolore, di vittoria finale di Putin unico baluardo contro le interferenze statunitensi nella zona. Le pulsioni staliniste, si sa, sono dure a morire e, la Storia insegna, assumono contorni variegati, non stupisce dunque che qualcuno veda in Putin l’occasione per rispolverare vecchie glorie e che all’allegra brigata si unisca anche la Destra. Ma per tornare alle cose serie, il  conflitto, largamente annunciato – tant’è che sui due territori erano già operative le forze di peacekeaping composte da soldati russi, delle quali  il ministro degli esteri georgiano aveva, senza esito, chiesto la sostituzione con truppe di nazionalità miste – scoppia per le ragioni che ci vengono ripetute dai telegiornali : c’è un governo in Georgia ansioso di unirsi all’Europa e alla  Nato, quindi sostenuto con disinvoltura dagli Stati Uniti, ci sono i separatisti di Ossezia e Abkhazia che invece vorrebbero ricongiungersi alla madre Russia. Questioni politiche ed etniche, sicuramente sono in ballo ma poi si da anche il caso che in Georgia passi l’oleodotto che da Baku porta gas e petrolio alle nostre centrali e che l’intera vicenda si colori di ulteriori  significati. Naturalmente dalla conta delle responsabilità, il governo georgiano non risulta immacolato, ma qualunque siano le motivazioni, chi invade con i carri armati e con i bombardieri, uno stato – altro che reazioni sproporzionate come dice Bush -  un progetto imperiale sta di sicuro perseguendo , ma questo nessuno lo rimprovererà mai all’amico Putin. Se poi a tutto ciò, si aggiunge la possibilità di una sfida aperta agli Stati Uniti – con annesso monito al futuro presidente – più altri contestuali avvertimenti agli stati che, attratti dall’orbita occidentale, volessero seguire l’esempio georgiano, ecco che la guerra diventa un indispensabile stratagemma che soddisfa più di un’esigenza del Cremlino. Missione compiuta dunque, chiosa Medvedev subito dopo  l’intervento della Comunità Europea. Anche perchè di enclave russe strategicamente allocate ce n’è in Moldova come in Ucraina e la partita potrebbe continuare su altri tavoli. Gli atlantisti sono avvertiti. Del resto con il Kosovo abbiamo inaugurato l’era del Diritto Internazionale à la carte ovvero alla mercè del più forte. Così tra ricatti energetici, l’ombra della sovranità Serba annullata da istanze indipendentiste ratificate dalla comunità internazionale e la solita storiella della guerra umanitaria in difesa delle popolazoni oppresse, Putin – altro che zar – non lo ferma più nessuno. Tantomeno l’amico George Bush la cui politica subisce un’ ulteriore sconfitta, questa volta sul terreno della capacità di difendere gli alleati. Al momento, l’accordo formulato da Sarkozy è sufficiente per il cessate il fuoco ma non per costruire un processo di pace duraturo. La parola  passa ai negoziati, nella speranza che concezioni geopolitiche obsolete, chiuse entro logiche di schieramento, lascino il posto alla ridefinizione di un modus vivendi nello spazio post sovietico. Unico approccio coerente buono a sciogliere gli enigmi post imperiali. Unico modo per farsi seriamente carico del benessere di popolazioni incolpevoli. Ci mancherebbe solo di andare a morire per Tblisi o per Ossezia combattendo,  per di più,  una guerra retrodatata.

Il banjo di Luke

Il banjo di Luke

 Cool Hand Luke valse a  George Kennedy, qui nella foto con Paul Newman, l’Oscar per miglior attore non protagonista. Paul dovrà invece aspettare il 1986 – Il colore dei soldi – per quel riconoscimento che alla fine, dopo tante attese, nemmeno ritirò personalmente. La stangata per esempio aveva vinto tutti gli Oscar possibili,  meno che quelli destinati agl’interpreti. 

Con grande commozione l’altra sera, Robert Redford a Cortona, lo ha ricordato.

Quasi quasi ci arrabbiamo

Quasi quasi ci arrabbiamo

pechino

Se, come ha detto  il presidente Jacques Rogge, le Olimpiadi di Pechino saranno un grande catalizzatore per il problema dei Diritti Umani, lo si vedrà da qui a qualche tempo. Al momento, i soli  Primati che l’Occidente si è guadagnato sul campo, sono quelli dell’ Ipocrisia e della Doppiezza. Se lo spirito olimpico è – come ci viene ricordato – parte dell’umanesimo moderno, allora alla Cina non bisognava affidare nemmeno l’organizzazione di un torneo di biglie, atteso che quando si parla di violazione dei Diritti Umani, si allude ad ogni sorta di Crimine di Stato : dalla pena di morte, alla tortura, ai lager. Senza dimenticare le brillanti operazioni di trasferta in Tibet, Birmania e Darfur.  Di fronte a tutto questo, i mugugni dei paesi che hanno rilasciato dichiarazioni di sangue o minacciato il boicottaggio, per poi precipitarsi all’inaugurazione, sono stati più insultanti della stessa indifferenza con la quale si è accettata la candidatura di Pechino a sede olimpica. Da una parte si finge indignazione, dall’altra si pensa alle importanti commesse o agli accordi commerciali,  tralasciando di riflettere, stavolta  senza nemmeno prendersi il disturbo dell’indignazione, sulla natura stessa della florida economia cinese, fondata sull’iniquità e sullo  sfruttamento di una manodopera priva di garanzie e retribuita con salari ridicoli. E del resto non lo ha detto già Bush, campione mondiale di tutte le indignazioni,  che il Mercato è l’unica via di salvezza per la Cina ? Non ci vuole molto per capire che quella è l’unica libertà che sta davvero a cuore all’Occidente. Dunque, la festa può cominciare.

Do it again

Do it again

La sua più sensazionale apparizione in pubblico avviene in un tetro pomeriggio invernale presso una delle basi militari Usa in Corea . Il cinegiornale che documenta l’evento la mostra, prima di andare in scena, intirizzita, in  un abito leggero color prugna e con i piedi nudi, calzati nei classici  sandali da sera col listino alla caviglia. Per tutta la durata dello spettacolo sarà l’unica donna innanzi ad una sterminata platea  di uomini, quando la carrellata mostra il pubblico assiepato fin su di una collinetta antistante il palco, ci si può rendere conto :  sono migliaia.  Scoppieranno boati e manifestazioni d’entusiasmo accompagneranno l’esibizione ma sono certi improvvisi silenzi a creare un’atmosfera irreale. Lei si dimena, provoca, incoraggia,  mentre – guardare il cinegiornale per credere – vere e proprie ondate di testosterone la investono. Quando accennerà Do it again – Fallo ancora – sarà talmente esplicita, che l’Esercito la pregherà di eliminare il brano dal repertorio dei  futuri spettacoli per le truppe. Qualche tempo dopo annoterà Penso che non sentii mai di esercitare un effetto sulla gente prima di andare in Corea. E’ uno dei momenti più felici della sua esistenza : ha da poco sposato Joe Di Maggio e nessun’ altra donna fino al funerale di Kennedy e all’imporsi di Jacqueline, avrà un posto così centrale nella vita americana. Oltre ventiquattro fotografi famosi – da Avedon a Capa a Enriques a Beaton – hanno ritratto di  Marilyn, bellezza, talento, stati d’animo, ma in nessuna di queste foto ritroviamo l’entusiasmo e la vitalità, il magnetismo che emana da quel filmato tra i soldati. Marilyn  era incantevole, ironica, arguta, sapeva cantare e recitare ma  soprattutto aveva nell’animo tutta la pulizia del mondo che  esprimeva con naturalezza e slancio  nel modo tutto suo, di entrare in perfetta sintonia con il pubblico. Siamo nel 1954, in una specie di sterminata caserma, distanti dalle trovate pubblicitarie per gli amatori della domenica, dall’erotismo prodotto artificialmente – lo Chanel n 5 al posto del pigiama o la biancheria in frigorifero  o la ruffianeria del concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff – In Corea, una canzone molto popolare, una platea lontani da casa e l’incarnazione compiacente del sogno erotico di qualunque maschio del pianeta, fanno scattare un magico incastro : una trappola di naturale sensualità che continua a funzionare a distanza di oltre cinquant’anni. Marilyn Monroe muore, forse suicida, nella notte tra il quattro e il cinque agosto del 1962. La misura del suo valore scriverà Norman Mailer ci è suggerita dall’espressione affranta sul volto di Joe Di Maggio, il giorno di quel tremendo funerale a Westwood, presso Hollywood.