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Tag: election day 2008

La giacchetta di Barack

La giacchetta di Barack

Obama 30

Questa corsa all’obamizzazione, prevedibile ma, quantomeno nella gente comune, non sempre connessa con la logica di stare ad ogni costo col vincente, magari ci mena buono e introduce nel dibattito politico, che qui da noi  trascura un po’ troppo quel che succede altrove, qualche elemento interessante.

Obama non è l’esplosione inattesa della voglia di invertire la rotta degli elettori statunitensi ma egli stesso l’incarnazione di un cambiamento che nella testa e nel profondo dell’animo degli americani, è già avvenuto. Differentemente da quanto capita spesso in politica : la voglia di cambiare, senza essere disposti a cambiare noi stessi, quel che poi diventa un fertile terreno per l’inverarsi di logiche gattopardesche.

Ed è proprio il colore della pelle di Barack Obama, la spia inequivocabile di questo mutamento. Assai più di un afroamericano : un meticcio. La prova vivente della società in complessa evoluzione.

Dunque lasciamo pure che lo si tiri un po’ per la giacchetta, in questi giorni si sente affermare qualsiasi cosa : che Obama è per le coppie gay e non lo è, che è per l’aborto e che non lo è,  che è più vicino alla destra che alla sinistra o viceversa, che è un esponente dell’elite liberal o che ha uno spirito autenticamente popolare e via dicendo.

Non vale la pena, al di fuori di ambiti ufficiali, di aggiustare il tiro o di frenare gli entusiasmi. Non c’è niente di male se ognuno vuol  appropriarsi di una figura, a conti fatti, estremamente positiva. Obama esce da una campagna elettorale ipercontrollata da severissimi esperti. Alla fine di queste corvee in cui anche i particolari più infinitesimali, vengono  vagliati, essere riuscito a sembrare egualmente naturale e spontaneo, è già un risultato incredibile. Doveva convincere e vincere, cioè piacere alla gente. E (fortunatamente) ci è riuscito.

 Di qui a poco però, Obama sarà alle prese con problemi, i più gravi che si possano immaginare dai tempi di Roosevelt, con una stritolante macchina del potere, con le enormi aspettative che un’elezione come la sua, importa. Dovrà trovare una difficile quadratura tra questi elementi. Un banco di prova importante per sè, per il Partito Democratico, ma anche per i suoi sostenitori. L’universale consenso è destinato a scemare per lasciare il posto ad altre stagioni.

Il messaggio di Chicago conteneva forti allusioni alle difficoltà dell’ immediato futuro in termini di comprensione delle scelte.Ma … Io sarò sempre onesto con voi,  ha concluso. Un buon inizio.

nell’illustrazione Obama segue i risultati elettorali in televisione

Eco da un altro mondo

Eco da un altro mondo

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Stanotte qualcuno del pubblico, durante il discorso di McCain, ha provato a fischiare al primo accenno del nome Obama. La foto qui sopra non esprime del tutto il disappunto, ma non c’è stato bisogno d’altro che quel gesto di riprovazione, le mani che respingono, una  smorfia infastidita e il fischio è rimasto per aria. Il resto del discorso è stato pronunciato in un silenzio quasi perfetto.

Magari il fair play, il riconoscimento della sconfitta, il rendere omaggio al vincitore, il dire che comunque quel giorno sarebbe stato importante per gli afroamericani, fanno parte del bagaglio di un politico di lunga esperienza e per di più – officer and gentlemen – cresciuto in una famiglia con una consolidata tradizione militare e poi educato all’Accademia Navale. Un comportamento di circostanza, si potrebbe dire, ma il corpo non mente mai : il fastidio per quel fischio, era autentico.

Sono immagini che qui da noi, abituati come siamo alla pratica di umiliare l’avversario come metodo di confronto politico, arrivano davvero come eco dell’altro mondo. Qui la destra coglie addirittura l’occasione per ricordare a Veltroni che ha vinto Obama, mica il PD italiano e che dunque si faccia da parte e lasci lavorare chi si è aggiudicato il consenso. Mentre Romano Prodi ancora aspetta la telefonata di felicitazioni per aver vinto le Politiche del 2006.

Ma che male abbiamo fatto ?

We have overcome

We have overcome

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This is our moment, this is our time. Da Memphis 1968 a Chicago 2008. Quarant’anni per chiudere una fase. E anche se le sfide  non sono certo al termine, chi ha messo al centro del proprio modo di pensare la politica e di agire, il tema dei Diritti, vive oggi un momento speciale. E’ stata una notte piuttosto lunga e incerta ma stamane, almeno le parole della celebre canzone  possono essere cambiate we have overcome. Ce l’abbiamo fatta.

Change we need

Change we need


Certo la questione  razziale, il tema più menzionato insieme alle complicazioni della macchina elettorale, in quest’ultimo tratto che separa  Barack Obama dal risultato definitivo, esiste. Tuttavia le previsioni hanno rivelato esserci negli Stati Uniti, non solo un gran numero di americani bianchi pronti a sostenere un uomo di colore a guida della Casa Bianca,  ma che la maggior parte degli americani di origine latina o asiatica voterà per lui – per non parlare dei cittadini che appartengono oramai almeno a due razze –  scongiurando così il rischio di un’ulteriore dinamica legata al colore della pelle.

La politica dell’identità razziale nata negli anni novanta sullo stigma del politicamente corretto, cioè di quella oscenità autoassolutoria che nelle sue forme degenerative autorizzava chiunque ad evitare di fare i conti con i propri istinti peggiori,  ha le ore contate. E con essa muoiono anche le istanze neocon, le guerre sante, e la paura delle invasioni barbariche. Ne resteranno retaggi, cascami,  ma non condizioneranno più le scelte politiche.

Nemmeno nell’ipotesi disperata che vincesse McCain, si prefigurerebbe un ritorno al passato. Poichè sulla presa di distanza di  quel passato lo stesso candidato repubblicano ha impostato la propria campagna: Io non sono Bush.

Il declino del movimento conservatore americano è iscritto nei mutamenti demografici e razziali, nel fallimento di un intero sistema di regolazione economica e sociale. Un combinato di disparati conservatorismi animati da principi quali l’anticomunismo, i forti investimenti militari, la diffidenza nei confronti dello Stato, la reazione ai movimenti di liberazione degli anni sessanta e più di recente la paura del terrorismo, crolla sotto i colpi del fallimento in Iraq o del meltdown di Wall Street ovvero nel fatto che nonostante la nomina alla Corte Suprema dei conservatori Alito e Roberts non si sia riusciti a riconsiderare la storica sentenza Roe vs Wade e l’intera legislazione sull’aborto che ne scaturì. Tutto questo mentre le Corti dei singoli stati  dal Massachussetts al Connecticut alla California, continuano a regolarizzare i matrimoni gay, oramai dato di fatto acquisito in vaste zone del paese.

Tramonta l’epoca inaugurata da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher, i blue collar sottratti vent’anni fa ai democratici dal mix spavaldo ed irridente di ottimismo capitalistico e senso di rivalsa culturale nei confronti delle elite liberal, sono sempre più poveri e delusi. Politiche modellate per arricchire i privilegiati non possono essere destinate ai vari Joe the Plumber.

I conservatori non sembrano più in grado di riflettere il paese che cambia.

Di qui ai prossimi giorni sapremo quali siano stati gli elementi deteminanti di una scelta ma comunque vadano le cose, la defezione di Colin Powell resterà per sempre l’emblema di un particolare tipo di cambiamento. Non un semplice endorse. Ognuno lo ricorda all’ONU, agitare la fiala di veleno nucleare – Questa in mano a Saddam può distruggere il mondo in poco tempo. Questa è la ragione per cui l’America interviene

4187 americani morti in Iraq e un numero imprecisato di soldati offesi a vita, nella mente e nel corpo, per una menzogna. Un’ entità numerica mai calcolata ma esorbitante, di vittime civili. E per sovrapprezzo,  lo scempio di Abu Graib. Questo è il seguito della storia, questo il motivo per cui Powell si è pubblicamente  vergognato di essersi prestato all’inganno.

Non lo appoggio perchè abbiamo lo stesso colore della pelle so che è cristiano ma anche se fosse musulmano non farebbe alcuna differenza, perchè ricordo un soldato che partì diciottenne per l’Iraq ed è sepolto ad Arlington e sulla sua lapide c’è la mezzaluna. Lo voto perchè è giovane e ha l’intelligenza e la curiosità necessarie per cambiare questo Paese e per non isolarlo dal mondo.

E’ stato da quel momento che Obama non ha più smesso di salire nei sondaggi. Se Obama vince, un sistema politico e culturale che ha portato gli Stati Uniti sull’orlo del tracollo, sarà definitivamente sconfitto.

Varrà anche per noi che a distanze siderali non potremo fare a meno di considerare quanto degli elementi fondanti della cultura e della politica della nostra Destra si ispirano al modello Reagan, Thatcher , Bush. E trarne le dovute conseguenze.

Knock on doors

Knock on doors

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La notizia non consiste  tanto nel fatto che che Giovanna Melandri, italoamericana con doppia cittadinanza, faccia  Knock on doors per Obama, in quel di Filadelfia. Ma che i democratici di Obama organizzino ancora i porta a porta per gl’indecisi, mentre i democratici di Veltroni, in analoga circostanza – l’ultima campagna elettorale –  abbiano ritenuto di ridurre questa pratica, confidando quasi esclusivamente sulla copertura mediatica di cui, in effetti, ha goduto il tour del segretario, e sulle iniziative dei candidati. Più qualche ammennicolo di nuova, per il simpatizzante medio, concezione legato all’uso della Rete, ma sul cui funzionamento, ancora non si hanno le idee chiare.

Saranno anche importanti, e oramai irrinunziabili, la mediaticità di una campagna, i cospicui finanziamenti, gli spot, le cene coi notabili, i siti internet, i blog, myspace e tutto il resto del corredo – e Obama in tal senso è attrezzato come non mai – ma poi alla fine, con gli indecisi, quello che funziona di più è  il contatto diretto. Un elenco di nomi stilato da chi conosce la tal  porzione di territorio e i relativi orientamenti, perchè evidentemente ci ha lavorato,  l’appuntamento, collettivo o individuale che sia, e il confronto diretto, nel tentativo di soccorrere con successo le incertezze. Con tanti cari saluti a facebook.

Per carità, non che con questo si sarebbero rovesciate le carte sul tavolo della storia, a Obama per spopolare – e ancora non è detto – oltre che i potenti mezzi e le sue indubbie qualità, gli ci sono voluti una guerra, l’impoverimento del paese, il crollo dell’Impero e due mandati Bush che avrebbero ucciso qualunque continente. Ma intanto, se nonostante le condizioni assai favorevoli rispetto al risultato, la tensione è tale da mobilitare volontari oltreoceano, per ascoltare ed eventualmente convincere gl’indecisi, significa che la modalità classica, un senso di efficacia ancora lo conserva. E in epoca di difficoltà a rettificare le informazioni distorte, per inadeguatezza di mezzi, rispetto all’insostenibile spiegamento proprietario della controparte, qualcuno che viene a sciogliere qualche incertezza vis à  vis, vale oro. Non un improponibile  ritorno al passato di defatiganti campagne capillari – che poi, sempre di controinformazione  erano fatte – ma un sitema integrato di mediaticità, tecnologia e rapporto diretto con le persone. Se si fa per Obama…

nell’illustrazione pasticcini “elettorali” a Denver