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Categoria: Americana

Buon 1957

Buon 1957

Cravatte bianche tra i drappi e i decori della Crown Room al Romanoff’s Restaurant di Beverly Hills. Si festeggia l’inizio del 1957, l’anno che sarà di Arianna, de L’Ultimo treno per Yuma, di Aquila solitaria, di Passaggio di notte e de La Banda degli angeli. La foto di Slim Aarons suggerisce allegria – mai visto Gary Cooper ridere così – eleganza e nonostante la location infiocchettata, una certa sobrietà.

Non avendoli vissuti, non posso rimpiangere quei tempi ma il solo fatto che a questi divi non passasse per l’anticamera del cervello di sembrare uno di noi facendosi ritrarre mentre mangiano un supplì o si allacciano una scarpa, mi fa sembrare tutto meraviglioso. Si lo so che trattasi di quattro conservatori repubblicani (Stewart più moderato) etcetc ma che sollievo vederli, ciascuno nei propri panni, esprimere un’identità precisa.Buon 2019.

Farewell

Farewell

 

Togliamoci il pensiero : questi due ci mancheranno. Belli, patinati, fotogenici, oratori eccezionali entrambi ma sopratutto incarnazione, in ogni loro momento raccontato o fotografato, di un autentico cambiamento.

Di qui a poco in Pennsylvania Avenue arriverà un nuovo presidente e invariabilmente per l’America e per noi tutti si aprirà tutt’altra epoca.

Quella avventurosa di Obama era cominciata così :

Niente di importante è mai accaduto in questo Paese se non quando qualcuno, da qualche parte, è stato disposto a sperare . Ci sono persone disposte a lottare quando si sentono dire «No, non potete», e loro rispondono invece «Sì, noi possiamo». È così che questo Paese è stato fondato. Un gruppo di patrioti che dichiarava l´indipendenza contro il potente impero britannico; nessuno pensava che avessero la minima chance, ma loro hanno detto: «Sì, noi possiamo». È così che schiavi e abolizionisti hanno resistito a quel sistema perverso, ed è così che un nuovo presidente ha tracciato una strada per fare in modo che non rimanessimo metà schiavi e metà liberi. È così che la più grande delle generazioni ha sconfitto Hitler e il fascismo, ed è riuscita anche a tirarsi fuori dalla Grande Depressione. È così che i pionieri sono andati ad ovest quando la gente diceva che era pericoloso; loro dicevano: «Sì, noi possiamo». È così che gli immigrati si sono messi in viaggio da Paesi lontani quando la gente diceva che il loro destino sarebbe stato incerto, «Sì, noi possiamo». È così che le donne hanno conquistato il diritto di voto, i lavoratori il diritto di organizzarsi, è così che giovani come voi hanno viaggiato verso sud per marciare, fare sit-in e andare in galera, e qualcuno di loro è stato picchiato e qualcuno è morto per la causa della libertà. Ecco, così  è  la speranza.

 

Otto anni e due mandati presidenziali dopo, il cerchio si è chiuso con lo slogan di sempre  e con un’idea di speranza e di fiducia che per funzionare deve trasformarsi in Volontà e Impegno :

 

La nostra democrazia è minacciata quando la consideriamo garantita. Quando stiamo seduti a criticare chi è stato eletto, e non ci chiediamo che ruolo abbiamo avuto nel lasciarlo eleggere.

Vi chiedo di avere fiducia, non nella mia capacità di portare il cambiamento ma in voi stessi. Vi chiedo di restare aggrappati a quella fiducia scritta nei nostri documenti fondanti, a quell’idea sussurrata da schiavi e abolizionisti… dagli immigrati… da coloro che hanno marciato per la giustizia, piantato bandiere su campi di battaglia stranieri e sulla superficie della luna. Un credo fondante per ogni americano dalla storia ancora non scritta “yes we can, yes we did, yes we can”. ( sì possiamo, sì lo abbiamo fatto, sì possiamo).

 

Baltimore rioters (mamme che menano)

Baltimore rioters (mamme che menano)

Toya 1597a3ee46466c00be2eba69d407b33d

Mi piace lui. Il cappuccio antagonista, l’aria truce e infervorata da Giusta Causa. E la rispettosa rassegnazione con cui sta per incassare gli schiaffoni materni.

Mi piace lei. La blusa gialla, la bigiotteria vistosa,  i capelli  – che fatica – lisci con qualche colpo di sole, ricercata, a suo modo, e sgargiante. Del tutto incomunicabile, nell’aspetto, con la severità militante del passamontagna di lui.Che ha visto (forse in televisione), impegnato in uno scontro con la Polizia.

Decisa ad impedire il peggio, lo ha raggiunto, colpito, rincorso, gli ha urlato contro e poi è tornata a colpirlo. Lui si è fermato per un attimo, l’ha guardata – ..eddai ma’ – e lei giù altre botte.Lui voleva vendicare Freddie, lei non voleva che facesse la stesse fine.

 Noi la vita di Toya Graham, madre single del combattente Michael e di altre cinque bambine, ce la possiamo solo immaginare ma non è tanto la singolarità della missione punitiva  a strappare il sorriso di approvazione (oramai planetaria) quanto il fatto che nonostante il drammatico contesto di fuoco, fiamme e sassaiole,riesca a non esserci ombra di violenza, né risentimento, né sopraffazione in questo scontro madre – figlio.Si mostra al contrario un evidente legame d’affetto, certificato dall’irruenza di lei.E dallo sguardo di lui. 

Despite differences

Despite differences

 

Combinati come siamo – due scandali a settimana, Parlamento sostanzialmente incapace di venire a capo di alcunché, dibattito politico ridotto a minimi autoreferenziali termini, più tutto un resto fatto di crisi e frantumazione sociale senza che se ne percepisca, in tempi brevi, l’ esito, quel che abbiamo visto la notte scorsa tra Chicago e Boston, ci sembra un irraggiungibile modello e ogni passaggio,dal sistema elettorale, alle dirette televisive, ai rituali della proclamazione, realizzato nel segno di una Grande Democrazia. Quello che, pur con inevitabili zone oscure e laceranti contraddizioni, gli USA effettivamente sono.

 

Ma al termine di una notte di incertezze e  fiato sospeso, Obama non ci ha regalato solo un legittimo momento d’entusiasmo. Nel discorso di ringraziamento – forse il migliore mai ascoltato negli ultimi anni –  ha racchiuso il senso da dare al futuro in un semplice proposito : lavorare insieme per il bene comune. Despite differences. Nonostante le differenze.

 

Al cospetto di un risultato elettorale che disegna un  paese diviso  a metà, a nulla vale inasprire le fratture, men che meno consegnarsi mani e piedi alla stagnazione, l’unica cosa da fare è coinvolgere l’ avversario nella costruzione dei programmi di governo.Come si conviene ad una democrazia compiuta.

Così e solo così può acquistare significato quel The best is yet to come che è piaciuto tanto da essere sulle prime pagine di molti giornali nel mondo.

Buona sorte a lui che ne ha bisogno e a noi che ne apprezziamo l’esempio.

 

(foto da Libération)

 

The crimes we are investigating aren’t crimes, they are ideas

The crimes we are investigating aren’t crimes, they are ideas

Giunti al trentacinquesimo capitolo de La Storia Americana secondo Eastwood – che poi siano Callaghan, Kowalski o Angelina Jolie i tramiti narrativi di questa  epopea non necessariamente gloriosa, poco conta  – la trama prende la piega del biopic d’introspezione psicologica e fatalmente s’inceppa.


Tutta colpa delle tradizionali  ambivalenze clintiane – laico alle prese con l’aldilà,yankee che racconta il punto di vista giapponese su Iwo Jima etcetc –  che al cospetto dei cinquant’anni di servizio di J. Edgar Hoover, capo dell’FBI in un arco di tempo ininterrotto da Coolidge a Nixon compreso , vengono risolte ponendo al centro della scena un’esistenza segnata  da turbe e ossessioni di natura sessuale senza che ciò interferisca minimamente con la tesi tutta conservative del servitore dello stato comunque.



Il che ovviamente non è sufficiente a spiegare l’operato di intercettazioni, trame, manipolazioni, creazioni di mostri e nemici pubblici che animano una materia già di per sé corposa –  complicata tra l’altro da andirivieni temporali e flash back – che a tratti sembra scappare di mano, mentre  la variazione sul tema, per dirla con lo stesso Eastwood, dell’uomo pieno di segreti che indaga sui segreti altrui, non  risulta poi così affascinante come nelle originarie  intenzioni. Stridono certi automatismi – mamma dominante genera disastri e latenze – ma soprattutto convince poco la tesi  che con tutte quelle macchinazioni tecnologiche e indagini tra le lenzuola di dive e first lady e macchine del fango perfettamente oliate, Hoover abbia in realtà messo ordine nel Far West delle procedure investigative americane.


Vero è che su Edgar J. il cinema (pur ritenendo Mc Carty, an opportunist not a patriot, Hollywood è stata uno dei bersagli prediletti di Hoover ) si era già esercitato con produzioni dedicate e non ed un ennesimo film su quanto fosse spregiudicata e fuori da ogni controllo l’FBI da lui reinventata e diretta, non sarebbe stata propriamente avvertita come un’operazione di quelle indispensabili.


Tuttavia, vuoi per i dialoghi – del premio Oscar Dustin Lance Black – vuoi per la recitazione del mutante Di Caprio, coraggioso bellone, qui sfigurato da protesi, dentiere e il cielo sa cos’altro, nelle cinque ore di trucco che gli ci son volute per diventare Edgar J., vuoi per il mestiere di Eastwood che oramai renderebbe interessante pure una carrellata sull’elenco telefonico di Amado, Arizona, vuoi per gl’immancabili  riferimenti all’attualità pre e post 11 settembre, il film risulta miracolosamente da non perdere:


Non fosse altro per quel No one freely shares power in Washington, D.C. Alle volte qualcuno non lo avesse ancora capito.


J. Edgar è un film drammatico della durata di 137 min. diretto da Clint Eastwood e interpretato da Leonardo DiCaprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Josh Lucas, Judi Dench, Josh Hamilton, Geoffrey Pierson, Cheryl Lawson, Kaitlyn Dever, Brady Matthews.
E’ anche noto con gli altri titoli “Hoover”.
Prodotto nel 2011 in USA – uscita originale: 11 novembre 2011 (USA) – e distribuito in Italia da Warner Bros nel 2012.