Sfogliato da
Anno: 2008

Do it again

Do it again

La sua più sensazionale apparizione in pubblico avviene in un tetro pomeriggio invernale presso una delle basi militari Usa in Corea . Il cinegiornale che documenta l’evento la mostra, prima di andare in scena, intirizzita, in  un abito leggero color prugna e con i piedi nudi, calzati nei classici  sandali da sera col listino alla caviglia. Per tutta la durata dello spettacolo sarà l’unica donna innanzi ad una sterminata platea  di uomini, quando la carrellata mostra il pubblico assiepato fin su di una collinetta antistante il palco, ci si può rendere conto :  sono migliaia.  Scoppieranno boati e manifestazioni d’entusiasmo accompagneranno l’esibizione ma sono certi improvvisi silenzi a creare un’atmosfera irreale. Lei si dimena, provoca, incoraggia,  mentre – guardare il cinegiornale per credere – vere e proprie ondate di testosterone la investono. Quando accennerà Do it again – Fallo ancora – sarà talmente esplicita, che l’Esercito la pregherà di eliminare il brano dal repertorio dei  futuri spettacoli per le truppe. Qualche tempo dopo annoterà Penso che non sentii mai di esercitare un effetto sulla gente prima di andare in Corea. E’ uno dei momenti più felici della sua esistenza : ha da poco sposato Joe Di Maggio e nessun’ altra donna fino al funerale di Kennedy e all’imporsi di Jacqueline, avrà un posto così centrale nella vita americana. Oltre ventiquattro fotografi famosi – da Avedon a Capa a Enriques a Beaton – hanno ritratto di  Marilyn, bellezza, talento, stati d’animo, ma in nessuna di queste foto ritroviamo l’entusiasmo e la vitalità, il magnetismo che emana da quel filmato tra i soldati. Marilyn  era incantevole, ironica, arguta, sapeva cantare e recitare ma  soprattutto aveva nell’animo tutta la pulizia del mondo che  esprimeva con naturalezza e slancio  nel modo tutto suo, di entrare in perfetta sintonia con il pubblico. Siamo nel 1954, in una specie di sterminata caserma, distanti dalle trovate pubblicitarie per gli amatori della domenica, dall’erotismo prodotto artificialmente – lo Chanel n 5 al posto del pigiama o la biancheria in frigorifero  o la ruffianeria del concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff – In Corea, una canzone molto popolare, una platea lontani da casa e l’incarnazione compiacente del sogno erotico di qualunque maschio del pianeta, fanno scattare un magico incastro : una trappola di naturale sensualità che continua a funzionare a distanza di oltre cinquant’anni. Marilyn Monroe muore, forse suicida, nella notte tra il quattro e il cinque agosto del 1962. La misura del suo valore scriverà Norman Mailer ci è suggerita dall’espressione affranta sul volto di Joe Di Maggio, il giorno di quel tremendo funerale a Westwood, presso Hollywood.

Uso di mondo

Uso di mondo

Lella Bertinotti, alle prese con le domande piuttosto pepate  di una recente intervista, ha chiarito che lei  i Ferrero a casa di De Benedetti ce li ha incontrati spesso (sottintendendo : che vuole quello da mio marito, con questa storia dei salotti che allontanerebbero la sinistra dalla gggente ? ).Tanto è bastato perchè la compagna di Ferrero – per non essere da meno, come direbbe Jannacci – scendesse in campo replicando che sì ,  ogni tanto qualche mondanità se la concedono  anche loro, i granitici esponenti  della sobrietà rivoluzionaria,  ma che quando questo accade, tornando a casa, non mancano mai d’interrogarsi  sulla Redistribuzione delle Ricchezze. Lo dice con l’enfasi che un simile argomento richiede – manco si trattasse di obbligatori esercizi spirituali, o di una sorta di lavacro o, più probabilmente,  di un tributo da pagare al senso di colpa – lasciando peraltro intendere che certi personaggi, invece che l’attico o il piano nobile dei palazzi in centro, abitano direttamente la Grotta di Ali Babà. Esaurita l’annosa polemica sulle barche e i titoli nobiliari ( persino Enrico Berlinguer ne era vittima) , sulle scarpe di D’Alema e il debutto in società della sorellina della Melandri al Grand Hotel ( o era l’Excelsior? Bah), ora il moralismo imperante si esercita  sui salotti, rei del disastro, della sconfitta e dell’annacquamento ideologico. Sarà, ma fatte le debite proporzioni a me pare che questa del far salotto sia un’abitudine inveterata e assai più diffusa di quanto sembri,  senza contare  che normalmente quelli che strillano di più sono i Piccoli Desideranti, coloro cioè che per un the freddo a casa De Benedetti, venderebbero la propria madre . Più la crisi della sinistra, se di crisi si tratta,  si presenta complessa e senza via d’uscita, più il dibattito tocca punte di conclamata imbecillità  tra motivazioni fantasiose e inconsistenti e banali rivisitazioni di vecchi luoghi comuni che resistono all’usura del tempo, ai crolli dei muri, alla globalizzazione e alle invasioni barbariche. Può succedere l’Impensabile, la colpa ultimamente è sempre del sommier di casa Tal dei Tali e dei di lui ( o lei )  ospiti che hanno tradito Causa e Fede tra una chiacchiera, una congettura e un bon bon. Magari fosse, sarebbe assai più semplice  ottenere il ritorno delle passioni e il recupero dei consensi perduti : basterebbe chiudere quei luoghi di perdizione,  d’autorità o per decreto, ovvero  proibire i dopocena e le barzellette nel fumoir.  Ferrero ( & signora) non sono certo Piccoli Desideranti,  visto che qualche devianza, di tanto in tanto se la concedono. Tuttavia  richiamando la questione dei salotti nell’ufficialità del congresso rifondarolo, è probabile  che il nuovo segretario intendesse fomentare l’odio di classe. Nei confronti di De Benedetti? Macchè. In quelli  dei coniugi Bertinotti. Dopo aver battuto l’avversario e con qualche furbizia riportando ben otto voti di vantaggio, ci si può permettere di stravincere. Non so cosa pensino i simpatizzanti di Rifondazione che una settimana sì e l’altra pure vengono presi per il naso, ora da chi va a fare spettacolo ma con gli indios nel cuore, ora da chi confessa di frequentare le case dei notabili  per obbligarsi a pensare ai poveri. Una delle critiche più ricorrenti che gli avversari politici rivolgono alla sinistra, è quella di avere un pessimo rapporto con la realtà. Più che pessimo, ha tutta l’aria di essere alterato.  Non rimane che sperare che in queste loro, quantunque sporadiche e sofferte frequentazioni, ai vari Ferrero,  rimanga appiccicato addosso, oltre che l’ insopportabile senso di colpa, anche un po’ di quello che viene definito  uso di mondo, qualcosa che andrebbe oltre l’utilizzo delle posate e dei bicchieri giusti, complicazione  che però tutti possono imparare ma che di fronte a controversie – anche non salottiere –  che virano al pianerottolo, suggerirebbe un contegnoso silenzio.  Invece di  inginocchiarsi sui ceci e sui cocci riflettendo sulla redistribuzione, certuni potrebbero mutare esercizio e dedicarsi alle buone maniere e al rispetto. Anche le masse, impegnate di questi tempi a fare i conti con ben altri grattacapi, ne sarebbero, credo, assai sollevate.

Il dibattito sì

Il dibattito sì

Nanni209

Diceva Moretti – ieri sera ospite all’Est film Festival  di Montefiascone dov’era in programma  il Caimano – che non farà il sequel della Cosa. Il  bel documentario girato nella sezione del PCI di Testaccio, fedele report di un’ assemblea tra militanti  all’indomani dell’annuncio di Occhetto alla Bolognina, non avrà un seguito da girarsi magari in un circolo del Partito Democratico . Oggi –  ha spiegato – non ritroverebbe  la stessa passione  – cioè  quell’insieme  di sentimenti insopportabilmente contrastanti –   disperazione, voglia di cambiare, entusiasmo, nostalgia, rabbia , senso di smarrimento che segnarono quella stagione, inaspettatamente, per molti di noi. Trovo la scelta appropriata  : la biografia di una parte politica ancora consistente  di questo Paese, la si può scrivere in tanti modi, Moretti che lo fa da sempre, continuerà, con l’acume che lo contraddistingue. Qualsiasi storia racconti  sarà sostenuto  dalla sua idea di cinema. Che non declina narcisisticamente –  Ecco il mio cinema ! –  come fanno certi – e chissene frega – verrebbe da rispondere –  ma che è nascosta nelle pieghe di ogni suo discorso ed esplicitata con estrema naturalezza nei suoi film . Una serata vivace con dialogo serrato, ad un certo punto sono spuntate, non so bene da dove, persino le serie americane della televisione via cavo , dove si sperimenta più che nel cinema . Verissimo. E poi ancora,  il modo di lavorare dei registi che stanno alla macchina da presa come Garrone o di quelli come lui, Moretti, che non lo fanno e che pertanto non meritano il titolo di maestro – di cui a più riprese il pubblico ha tentato d’insignirlo – . Ho trovato apprezzabile l’ omaggio al versante artigianale del lavoro del regista e mentre il dibattito va avanti  - so anche perchè – mi viene in mente la giusta distanza che amiamo in Rossellini o la necessità dell’  Herzog –  per esempio – di Nosferatu di dirigere il film da dentro il set, mescolato alle comparse, persino durante le riprese. Poi arriva, immancabile,  lo spettatore che esorta il regista  a fare un cinema politico, incisivo, duro . Non faccio film per scuotere gli spettatori, racconto storie che danno forma ad un mio sentimento è la risposta. Ma poi ognuno sa che quel sentimento non è mai solo suo, perchè bravo come lui a raccontare le storie e gli altri attraverso se stesso, ce n’è pochi. Ci saranno state trecento persone ad ascoltare. Chissà se hanno realizzato quanto coraggiosa ed indipendente sia stata l’impresa di Moretti e Barbagallo, – La Sacher – per aver prodotto  i primi Mazzacurati, Luchetti, Calopresti ma anche per aver dimostrato che si può lavorare senza scendere a compromessi. E lavorare bene. Quando spiega di aver voluto finanziare alcuni esordi per ripagare qualcuno della fortuna che avevo avuto, so che è sincero e so anche molto bene che non di fortuna si trattò ma di autentico talento, quello che è di tale evidenza da mettere d’accordo pubblico, critica, illustri colleghi e quant’altri. Fa sempre piacere ascoltare Moretti parlare di politica o di cinema e nell’uno e nell’altro caso, rinvenire i termini di un istinto civile che alle volte sembra essere smarrito. O divenuto talmente démodée da porre dubbi sull’utilità del prosieguo. Allora il dibattito sì. Che aiuta.

Un caso di regressione istituzionale

Un caso di regressione istituzionale

Beppino

Vincenzo Carbone,  primo presidente della Corte di Cassazione, sceso in campo di recente per il caso Englaro è stato netto  : La Corte si è espressa nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale , affermando un principio di Diritto,  sulla base  della interpretazione costituzionalmente orientata della legislazione vigente. Mentre la Corte d’ Appello di Milano, nella sua autonomia e valutando in concreto le prove raccolte, ha deliberato che potessero essere sospese alla Englaro, l’idratazione e l’alimentazione forzata. Insomma, sostiene giustamente Carbone, in entrambi i casi, i giudici hanno svolto scrupolosamente il proprio lavoro. Non sono stati dello stesso avviso  i 40 senatori ( Quagliarello, Cossiga e altri)  firmatari di una mozione  che chiede al  Senato di sollevare un conflitto tra Poteri dello Stato nei confronti della Corte di Cassazione. La mozione assume  che il giudice  abbia violato il Principio della Separazioni dei Poteri e abbia leso le attribuzioni del Parlamento Legislatore, adottando una pronuncia creativa, nel vuoto normativo conseguente alla mancanza di una legge applicabile. La questione discussa dieci giorni fa in Commissione Affari Costituzionali, è stata posta ai voti quest’oggi in Aula, ottenendo l’approvazione. Se, come prevedibile, il Senato confermerà il voto della Camera, sarà compito della Corte Costituzionale appurare l’esistenza o meno di un Conflitto tra poteri dello Stato. Siamo ad una iniziativa senza precedenti all’interno della quale, per sovrapprezzo,  è annidata una tale forma di cieca e subdola violenza da non giustificare nemmeno il più innocuo atteggiamento interlocutorio. Eppure quella sentenza, lungi dal aver creato Diritto, ruota intorno a Principi e Norme presenti nel nostro Ordinamento ed esplicitamente  vi si riferisce  : gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d’ Europa, la Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea, la legge sul Servizio sanitario nazionale del 1978, gli articoli del Codice di deontologia medica con richiami a sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione. Dove sarebbe il vuoto normativo? Dove l’indebita supplenza? . I giudici si sono mossi con coerenza su di un percorso quasi obbligato, se  si fossero rifiutati di decidere, vi sarebbe stato un caso clamoroso di “denegata giustizia”. Essi non hanno “condannato a morte” Eluana. Hanno adempiuto al loro difficile dovere, applicando principi e norme generali ad un caso concreto, così come, prima di loro, avevano fatto giudici di corti nazionali e internazionali, dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Germania (tutte decisioni scrupolosamente ricordate dalla Cassazione). Beppino Englaro non meritava  quest’aggressione ne’ che il suo dolorosissimo caso fosse materia per un ennesimo conflitto tra Politica e Giustizia. Egli chiede solo che di  Eluana siano rispettati i voleri e la dignità ma ogni volta che nella sua pluriennale battaglia per i Diritti, riesce a conquistare una parvenza di risultato, infiniti ostacoli vengono posti sul suo percorso. La novità  dei giudici costituzionali, non avrebbe influenza diretta sulle scelte di Beppino che comunque sta già combattendo altre guerre per rimuovere altri impedimenti ma certo ci piacerebbe che su questa investitura popolare che ultimamente sembra autorizzare tutto, finanche il  conferimento all’Assemblea Parlamentare della  natura di giudice di estrema istanza, la Corte si esprimesse con nettezza onde evitare che un caso di corretta amministrazione della Giustizia venga ricordato come un caso di regressione culturale e istituzionale. 

 

C’era una volta il piano Air France

C’era una volta il piano Air France

 

Dopo essersi assicurati il tempo necessario ad effettuare la due diligence, costato al contribuente la sciocchezza di trecento milioni, l’altra parola magica per la fantasmagorica cordata è Piano Industriale, lo vorrebbe conoscere per esempio, Colaninno padre, incerto sulla profittabilità dell’operazione e sul proprio futuro ruolo imprenditoriale,  ma anche Gilberto Benetton che a Berlusconi e Tremonti le ha cantate chiare dicendo, in poche parole : noi c’impegnamo ma…mica siamo l’IRI. Come dire : qui non si fa beneficenza, senza considerare il fatto che un partner internazionale assicurerebbe più facilmente il successo all’impresa. Se lo dice lui…Insomma la cordata c’è  ma sono tutti lì  a condizionare la propria partecipazione ad un progetto più chiaro e delineato.
Ovviamente si parla di Alitalia e, atteso che ogni notizia sulla compagnia è  reperibile ovunque –  il sito, i giornali, le prime pagine dei quali questa vicenda ha occupato per mesi – appare chiaro che le tattiche dilatorie sono sempre in grande spolvero. Tutto questo con il  tempo che non ha smesso di essere denaro, poi,  visto l’incremento del prezzo dei carburanti, il cielo sa se la perdita quotidiana, attestata intorno al milione, sia contenuta ancora in tale cifra . Altre notizie trapelano, la più inquietante riguarda la crescita esponenziale degli esuberi :  dai duemila stimati da Air France si è passati a quattromila poi ai cinquemila attuali ( ma qualcuno giura che siano settemila)  che però adesso comprendono anche quelli  Air One che venderebbe alla Nuova Alitalia alcune delle sue attività ( flotta aerea, autorizzazioni e contratti di acquisto dei nuovi aerei …). Ha un bel dire Corrado Passera che non sono previste fusioni visto che in quel caso  la nuova società acquisirebbe i debiti  – intorno al miliardo di euro – di Air One, ma se il personale viene gestito come fosse un esubero Alitalia e le attività liquidate con azioni della nuova società, sbaglio o abbiamo inventato un nuovo tipo di slalom gigante in cui  oltre al fatto che non si è capito chi paga i debiti della vecchia Alitalia, la remissione per i  lavoratori di entrambe le compagnie è certa? Poi dicono che manca il Piano Industriale. …Da quel che si capisce l’intrepida cordata, vuol rilevare  Alitalia ripulita dei debiti e degli esuberi, scaricando sulla collettività diversi costi.
C’era una volta il piano Air France  che prevedeva un investimento immediato di due miliardi di euro. Che sarebbero serviti  :  150 milioni di esborso per gli azionisti di Alitalia, più 600 milioni di rimborso delle obbligazioni emesse da quella società, più l’ assunzione dei debiti che figuravano nel bilancio della Compagnia di bandiera. Air France si era impegnata inoltre  a ricapitalizzare l’ azienda con un miliardo di euro . (e siamo a tre ).  Inoltre l’impegno sarebbe stato  di portare la società a profitto  entro cinque anni col taglio degli esuberi ( stimati in 2000 unità) , il rinnovamento della flotta, l’ abbandono di Malpensa e un investimento complessivo di 6,5 miliardi entro il 2013 nel quadro di un grande gruppo che comprende Air France, Klm, ed  eventualmente  la stessa Alitalia. L’ impegno totale dell’ acquisto e del rilancio contemplava dunque 10 miliardi di investimenti.
Qui invece è grasso che cola se la cordata arriverà a stanziare un miliardo di cui  trecento milioni del prestito ponte sono già da restituire al Tesoro.Il tutto per mettere in pista una Compagnia Bonsai che coprirà  per lo più le tratte nazionali e qualcosa in Europa. Si ritorna all’assetto degli anni 60. Con  qualche condizione al contorno decisamente mutata. Ma poco poco. C’era una volta il piano Air France, abortito che era già grandicello, sacrificato all’orgoglio nazionale che come tutti i sentimenti roboanti, costa molto, rende poco e non si sa mai cosa nasconda davvero.