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Anno: 2008

Sed è una terrorista ( les liaisons dangereuses)

Sed è una terrorista ( les liaisons dangereuses)

V day

Ho frequentato le scuole insieme a molti ragazzi che di lì a breve, avrebbero aderito  alla lotta armata, con alcuni  ho intrattenuto relazioni superficiali, di altri sono stata amica. Quando me ne è stato chiesto conto, ho dimostrato non solo la mia contrarietà all’uso della violenza ma anche la mia completa estraneità a qualsiasi fatto criminoso avesse visto il coinvolgimento dei miei conoscenti e i miei amici. In ogni caso si è potuta appurare la mia inconsapevolezza. E’ tardi oramai per coltivare aspirazioni a cariche pubbliche, tuttavia quando si parla di me, non m’interessa che siano taciute le mie relazioni ma vorrei che, insieme ad esse,  si precisassero fatti e contesti. Ecco perchè :

E’ un fatto che Renato Schifani abbia intrattenuto relazioni con Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, nel 1979, come pure è vero che dopo vent’anni  Mandalà venne accusato di mafia. Ed è ancora vero, linguaggio colorito ed epiteti gratuiti, a parte, quello che dice Travaglio e cioè che i fascistelli di destra e di sinistra e di centro che mi attaccano ancora non hanno detto cosa c’è di falso in quello che ho detto.Credo infatti che nemmeno Schifani abbia mai negato le relazioni  di allora. Eppure questo per Travaglio è sufficiente per convincere il pubblico che il presidente del senato sia in odore di collusione con la mafia. Esattamente come chi scrive potrebbe essere stata in odore di terrorismo.Travaglio racconta fatti ma non dice che delle presunte connessioni mafiose di Schifani non si parla semplicemente  perchè ulteriori approfondimenti non hanno condotto oltre quella relazione del 1979. Il metodo mi ricorda vagamente quello adottato con Mastella. L’imprenditore vorrebbe un appuntamento col politico – evento abituale e di per sè innocentissimo – e da ennesima intercettazione si apprende che lo sventurato rispose "Mandamelo". Tanto basta per imbastire un paio di trasmissioni su presunti intrighi del politico con l’imprenditoria. Ecco qui che il giornalismo, soi disant, d’informazione, diventa immediatamente  giornalismo d’opinione. Tanto basta per collocarsi a buon diritto nelle pagine più ambigue del  Costume Nazionale rompendo il paradigma travagliesco della tutela dei cittadini da una stampa e da una televisione  mercenaria o asservita al potere. E se si vuole un’idea di quanto sia socialmente utile un simile metodo, basta fare una ricognizione dei blog in cui sulla scorta di quanto sostenuto nella trasmissione Che tempo che fa, già si afferma di essere governati senza più speranza e senza tutela dai mafiosi. L’ultimo divertimento in città è disperarsi senza vedere mai una via d’uscita. Se invece si volessero tirare le somme su quanto di utile ha prodotto il furor di popolo derivante dalle denunzie della scorsa stagione, basterebbe guardare l’elenco dei parlamentari e le new entry per capire che simili operazioni sono strutturate per lasciare le cose come stanno. Non promuovono cambiamento, in compenso producono senso d’impotenza e frustrazione. Queste agenzie del risentimento lavorano ad un cattivo giornalismo,ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di un’energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity,in competenza,in decisione.Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana e urgente,necessaria critica della classe politica istituzionale ( Giuseppe D’Avanzo. La lezione del caso Schifani. Repubblica del 13 maggio 2008 ). Abbiamo davvero bisogno di tutto questo? E soprattutto possiamo tollerare che nel servizio pubblico si giochi con la buonafede di chi, inconsapevole dei fatti, si mette in ascolto per saperne di più ? Quale libertà è stata offesa se non quella del pubblico che, oltretutto, paga il canone?

L’aria che tirerà ( chez Lucia)

L’aria che tirerà ( chez Lucia)

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Dice Tremonti – e la digressione è stata cento volte più interessante dell’annunciata querelle extragettito si, no, forse, all’interno del programma televisivo in mezz’ora – che la sinistra non è vicina alla gente. Veramente non lo dice solo Tremonti, sono in molti a sostenerlo.Un progressivo scollamento dall’elettorato tradizionale è in atto già da qualche anno sebbene, sottoforma di quesito ricorrente – come essere vicini alla gente – la sinistra si sia posta a più riprese ed anche in sedi autorevoli,  la questione di come articolare la sua presenza nella società. Diciamo da quando la crisi della partecipazione alla vita politica ha cominciato a funzionare un po’ come la crisi delle vocazioni, una contribuiva a svuotare i conventi, l’altra le strutture territoriali. Il partito leggero al quale molte colpe, in tal senso, si vogliono attribuire, più che una scelta, ha rappresentato una necessità derivante da una presa d’atto iniziata già dai tempi del PCI . Certo si sarebbe potuto fare di più, stringendo alleanze con l’Associazionismo o patti più funzionali tra gli eletti nelle amministrazioni locali e i cittadini, per esempio. Le circostanze in cui simili relazioni si sono attivate, hanno prodotto risultati importanti ma è pur vero che la temperie del riflusso nel privato ha favorito l’insorgenza di spinte individualistiche inconciliabili con le istanze del sociale. Difficile contrastare un fenomeno che investe settori che vanno ben oltre  la politica. Miglior gioco ha invece avuto la destra nel cavalcare il disagio che occasionalmente si esprime a livello locale  su specifici problemi. Ma in quel caso è l’approccio di sinistra a non essere  popolare e vicino alla gente . Non sono da disprezzare problemi che investono la vita dei cittadini ma non c’è risoluzione al disagio, in una società complessa, che non importi il mettere le mani in un sistema di connessioni di dati derivanti da altri sistemi :  industriale – economico, politico globale e locale, sociale con gli indicatori sulla oggettiva e soggettiva qualità della vita e così via. Non è un caso che nel momento in cui tali considerazioni vengano poste ai barricaderi del Nimby, la sensazione di distanza si accentui. Lo stesso vale per i temi definiti dell’allarme sociale anche nel caso in cui il senso d’insicurezza derivi da reali inconvenienti e non da predisposte campagne mediatiche. Si possono non demonizzare le ronde, considerarle per dirla con D’Avanzo una  misura di tutela delle comunità smarrite e disgregate ma poi la Politica deve trovare soluzioni ai problemi in ambito istituzionale, non delegando ai cittadini funzioni di polizia. Tra qualche giorno Maroni presenterà una serie di provvedimenti su Immigrazione e Criminalità  la cui piena attuazione – ammessa che sia quella la strada –  richiederebbe un sistema giudiziario più efficiente, più strutture detentive, più centri di accoglienza, una diversa legislazione europea e in qualche caso anche un’altra Costituzione Repubblicana oltre che la cancellazione di Schenger. Eppure questo pacchetto che è di puro impatto mediatico, obbedisce ai desideri di coloro ai quali la sinistra non riesce ad essere vicina semplicemente perchè tende a concepire il governo dei processi in altri termini. Diciamo che per Tremonti and co, lasciando in pace Gramsci, pur convocato in soccorso delle tesi sull’anacronismo della sinistra,  è facile essere vicino alla gente dispondendo di un sistema d’Informazione che pur non orientando direttamente il voto, definisce sin nei minimi particolari, spesso costruendoli, quali siano i connotati del  mondo in cui viviamo e lo fa con gran dispiego di mezzi, non solo attraverso le campagne di stampa, i telegiornali o i talk show  ma destinando all’uopo, l’intero palinsesto, le fiction e i mille programmi d’intrattenimento, quiz della speranza compresi. Determinato il clima, non è difficile inventare la misura salvifica da diramare sottoforma di spot. Se l’aria che tira è questa, e a quanto sembra non riguarda solo la sinistra italiana ma la sinistra europea più  o meno al completo, non sarà cosa di poco conto invertire la tendenza. Forse aveva ragione Pintor a dire che la sinistra è finita. E probabilmente questa incapacità di affermare le proprie pur dignitosissime soluzioni altro non è se non un segnale d’invariabile declino.

L’aria che tira

L’aria che tira

E così, semplifica di qua e aggira una procedura di là – ma dopo verrà qualcuno a spiegare che non sempre, e non tutti, i passaggi istituzionali sono da considerarsi  cerimonie protocollari ? – il nuovo governo ha giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione. Vista da vicino, la nuova compagine è snella, più giovane del consueto ed esprime quattro donne delle quali  due persino con portafoglio. Il quadro è così ben delineato da rendere ogni lettura quasi superflua. Il consenso acquisito, le sfide a venire e le esperienze trascorse, hanno suggerito al Presidente del Consiglio la formula per mettere insieme una squadra che, al di là dei naturali problemi di equilibrio tra le diverse componenti, ora più che mai , è la sua squadra. E fedeltà sembra essere stato il criterio che più di ogni altro ha guidato il lavoro del Premier quand’era ancora in pectore. Non c’è gran rinnovamento e non ci sono facce nuove, ma di che stupirsi? La maggioranza degli italiani ha votato proprio per questo tipo di governo. E di questa chiarezza e rispondenza, ognuno dovrebbe compiacersi. La vera semplificazione è tutta lì : il leader che piace agli elettori e i ministri che piacciono al leader. L’imprinting della Lega per sbrogliare i nodi cruciali, i temi forti della futura legislatura:  immigrazione, sicurezza, riforme, gli uomini del Premier ai ministeri chiave : Economia e Giustizia. Una mirabile tessitura che fonda la sua ragione d’essere, la  sua solidità e, presumibilmente  la sua futura armonia  sugli undici punti di vantaggio  guadagnati sull’avversario. Potenziali  conflitti, in queste condizioni, non potranno essere che appianati, inutile sperare  in divergenze in grado di  minare la stabilità. La trascorsa esperienza – una coalizione troppo ampia, animata da controversie, ricattabile per  un margine di vittoria esiguo – ha stimolato, comprensibilmente, una forte esigenza di governance e di concentrazione del potere decisionale. Allo stato attuale, tutte queste condizioni sono state talmente onorate che senza un ruolo di rilievo dell’Opposizione, si rischia l’appiattimento ovvero il farsi spazio di forme di decisionismo che eludendo ogni complessità finiscono con lasciare le questioni irrisolte . Questo governo può far da solo e fare anche molto male a questo Paese se lascia prevalere la sindrome dell’ autosufficienza. Per questo non mi dicono niente di buono la modalità di  avvicendamento Taiani – Frattini alla  Comunità Europea e tutta l’irritualità post elettorale vissuta e presentata come semplificazione. Ne’ la presenza femminile sacrificata a logiche di equilibrio o l’assenza di figure autorevoli di rilievo istituzionale – sembra davvero curioso che l’attivismo e l’esposizione mediatica di Michela Brambilla siano destinati a risolversi in un probabile ruolo di sottogoverno, che le competenze di Giulia Bongiorno, o il prestigio di Marcello Pera non siano stati impiegati nella Giustizia, ministero chiave nella lotta alla criminalità e quindi contiguo alla risoluzione del problema della Sicurezza, affidato invece alle cure di Angelino Alfano che affianca alla scarsa esperienza anche una obiettiva mancanza di autonomia. L’aria che tira peraltro largamente anticipata durante la fase pre-consultazioni, nelle piccole cose, nei linguaggi, negli atteggiamenti proni, nei paternalismi, nella sbandierata ammirazione dell’uomo solo al comando, non parla il linguaggio della democrazia e dove non c’è democrazia non brillano nemmeno funzionamento e sviluppo. Prima ancora di preoccuparsi se questo governo sarà o meno per Silvio IV, un buon viatico per il Colle e quale modello presidenziale adotterebbe nel caso, bisognerebbe preoccuparsi di costruire  le Regole come da promesse di campagna elettorale di recente conclusa. In attesa : lunga vita a Giorgio Napolitano.


La bellezza ci salverà?

La bellezza ci salverà?

Omaggio al principe Myskin prekrasnyj – pieno di splendore  alla sua compassione, alla sua generosità, al  suo talento nel farsi carico delle altrui sofferenze – Ci salverà la bellezza –  campeggia quest’anno sulla Fiera del Libro di Torino che ospita gli scrittori di lingua ebraica nel 60° anniversario della nascita dello stato d’ Israele. Paura, Incombenza, Perturbazione sono i sentimenti di cui è intrisa la cultura ebraica. Confinati sullo sfondo  dei racconti di  Yehoshua che se ne serve con discrezione rendendo paradossalmente  il  senso del pericolo ancora più incombente o protagonisti in Ahron Appelfeld insieme all’autoinganno di fronte alla crudeltà del reale, attitudine tra le più tragiche che il genere umano conosca. Ovvero nascosti tra le righe delle promesse dell’avanguardia che sembrano esprimere tutt’altro mondo :  Etgar Keret – meraviglioso – ossessionato dall’assurdità dell’esistenza, dalle distorsioni della morale che  dietro ai suoi racconti, minimalisti, urticanti  rivela la presenza di Kafka, di Bruno Schultz. Della grande speranza cassidica. Keret tradisce un’insofferenza per il mondo contemporaneo israeliano tutta moderna e  ne aggredisce le peculiarità con violenza, sarcasmo, spregiudicatezza .  La letteratura israeliana è un’onda anomala che porta con sè una nuova visione dell’ebreo  - non ce ne facciamo più nulla della letteratura da piagnistei, chiosa Amos Oz –  E se è vero che dove la tradizione incontra la modernità e la storia il quotidiano, la letteratura prolifera, non deve stupire che uno staterello con una popolazione inferiore a molte megalopoli americane, consegni al mondo un così straordinario numero di scrittori. Non ha gran senso il boicottaggio di coloro i quali ci raccontano le cose come stanno in termini di reale distribuzione di responsabilità , di errori, di torti subiti e inflitti. Da Yehoshua a Keret, nei decenni che intercorrono, si dipana sotto ai nostri occhi tutto il mutamento della società israeliana e anche se gli scrittori  non rappresentano , purtroppo, la voce dell’intera società o dei suoi assetti di potere, ne sono l’irrinunziabile  coscienza critica. Sia il concetto eretico e sovversivo di  Bellezza, ovvero l’attenzione all’altro, come Dostoevskij ce lo ha raccontato, a salvarci. E a salvare chi alle parole, vuole sostituire l’aridità e l’insensatezza degli slogan.

Aspettando la festa ( in nome del cinema italiano)

Aspettando la festa ( in nome del cinema italiano)

Claudio Santamaria il prossimo 13 maggio sarà al liceo scientifico Primo Levi di Roma per mostrare agli studenti il suo film del cuore : Roma, di Federico Fellini. L’ambito è quello delle iniziative titolate ” Aspettando la Festa” e comprende tra l’altro un incontro con James Ivory (avvenuto una settimana fa all’auditorium ), con  Giovanni Veronesi, Jodie Foster e altri. La festa da aspettare  è quella del Cinema, prevista per fine ottobre, oggetto in questi giorni di speciose polemiche  sulla direzione artistica troppo versata alla cinematografia americana o su un presunto dispendio di pubblico denaro. Ma come ognuno sa, l’iniziativa  , diversamente da Venezia, il cui direttore Marco Muller resta comunque  in attesa di contributi e critiche statali  sulla sovrabbondanza di cinema asiatico in concorso, o come Torino con un Nanni Moretti pronto ad accogliere ogni possibile  reprimenda sull’eccessiva attenzione   dedicata al cinema tedesco,  è completamente finanziata da privati – Camera di Commercio e oltre 70 sponsor, più  varie partnership – Ma questi sono dettagli e poco importa se nel più puro  stile coda di paglia più coda di campagna elettorale, si continui a far credere che i quattrini della limousine di Di Caprio ( che per la verità gira con una normale berlina da noleggio) siano le brioches consumate alla faccia  del popolo che reclama pane, tutto questo accadendo mentre i peggiori esponenti della sinistra romana se la spassano sul red carpet . Demagogia più populismo uguale visione miope dello sviluppo di una città, gli amministratori della quale  generalmente  non hanno innanzi a sè, quesiti binari del tipo strade sicure o cultura ma che alle une e all’altra devono dedicarsi con la stessa energia. Roma è una città complessa e la favoletta che l’amministrazione nasconda dietro ai lustrini un inimmaginabile degrado assomiglia molto alle leggende sulle regine sanguinarie ancorchè adorne di gioielli  ed è smentita in larga parte dai risultati in termini di crescita economica e dalle cifre relative alla criminalità assai più diffusa negli anni tra i 60 e gli 80 che oggi. Tuttavia, mentre l’autarchico Alemanno invia  messaggi  rassicuranti all’ambasciatore americano, legittimamente preoccupato  per talune espressioni ineleganti  e per non meglio identificate liste di proscrizione di star Hollywoodiane , si chiudono anche le iscrizioni all’iniziativa “Arcipelago del cinema Italiano” manifestazione romana destinata ai nuovi talenti,  presente nella top 50 della classifica di Variety. Chissà se Alemanno impegnato com’è a vagheggiare di borgate fiorenti e risanate , se ne è accorto. Ad ogni buon conto, non si può fare a meno di osservare come dopo il Gusto di Stato – vedi teca di Meier – il passaggio  alla Cinematografia Patriottica è stato un attimo. E non è un caso che i Fratelli Vanzina si siano dichiarati subito d’accordo denunziando il clima blindato della festa, inadatto, a loro dire,  alla sua matrice popolare. Tutta colpa di quelle puzze sotto al naso dei selezionatori  che invece di presentare Vacanze di Natale al Tufello, si ostinano a mostrare The Departed di Scorsese o la Sconosciuta di Tornatore, in anteprima mondiale, rifiutando ai film dei Vanzina gli onori della partecipazione alle varie sezioni . Se il popolare è rappresentato dalle vacanze in tutti i luoghi del mondo sotto Natale, è ovvio che non si hanno idee particolarmente chiare  su quanto invece si possa fare del buon cinema che richiami il grande pubblico,  senza che la qualità ne risenta : il cinema americano sotto questo aspetto avrebbe molto da insegnare al cinema del resto del mondo. E pensare che noi, invece che allo struscio sul tappeto rosso, credevamo di lavorare ad un progetto di riassetto dignitoso della nostra cinematografia, ad una legge adeguata ai mercati internazionali, pensavamo che valesse la pena di rilanciare gli studi di Cinecittà e il lavoro delle nostre troupes e con questo di rimettere in moto una macchina audiovisiva in coma. Ma tutta questa avversione non è una novità : quando la destra si riappropriò della città agli inizi degli anni ottanta, la prima cosa che fece fu annullare l’Estate Romana con Massenzio, al posto della quale istituì un bel nulla. Allora c’era un chiaro intento demolitorio di modalità ritenute superficiali solo perchè non conosciute, oggi  a quella tendenza si aggiunge una visione provinciale, asfittica, basica del ruolo degli eventi culturali in questa città.  Come si pensa di continuare a far crescere Roma se non attirando ingenti capitali attraverso  la realizzazione di manifestazioni culturali o commerciali di rilievo? Quale futuro per l’economia cittadina che non ha molte altre risorse che vivere di se stessa ? I numeri della Festa del resto parlano chiaro e se fossero vere le considerazioni dei detrattori, seicentomila cinefili snob sarebbero giunti a Città della Musica e assiepati presso i 33 schermi sparsi in tutta Roma,  nei dieci giorni della scorsa edizione, avrebbero assistito a 670 proiezioni di film provenienti da 42 paesi. Senza considerare il volume d’affari realizzato in Businnes Street , la scommessa di creare qui a Roma, un punto di mercato, inesistente oggi in Italia. Amare il cinema italiano non significa solo sbandierarne il  primato  : significa cercare di mostrarlo più che possibile in Italia superando i problemi di distribuzione e venderlo all’estero. E la Festa di Roma lo ha fatto. In oltre 23 paesi.  Dunque a ciascuno il suo mestiere. Oggi in omaggio allo spoil system di buona memoria, si parla di cambio di presidenza della Fondazione Cinema per Roma,organizzatrice della festa, ignorando che quella carica  ricoperta oggi da Goffredo Bettini scade nel 2011 e che l’estasi creativa del regista Pasquale Squitieri – intellettuale di riferimento della neo giunta –  dovrà attendere tale data per potersi esprimere pienamente, sempre che riesca a convincere gli altri membri del Cda e cioè Provincia, Regione, Camera di Commercio e Musica per Roma a farsi eleggere. Invece di spararle grosse, Alemanno potrebbe pensare a dare continuità ai buoni risultati, senza acredini ne’ livori, perchè se il nostro cinema oggi non è  in grado di riempire un’intera manifestazione, ciò è sostanzialmente dovuto a talune  leggi licenziate durante l’esperienza Berlusconi 2 , una a caso : l’Urbani,  che  sembra fatta apposta per stroncare sul nascere qualsiasi progetto cinematografico alternativo o commerciale che sia. Ora con tre televisioni, le sale cinematografiche e il ripristino del filo diretto con Saccà per controllare la RAI, il Mentore politico di Alemanno, aiuterà senz’altro il cinema italiano ad affermarsi nel mondo. Hollywood esclusa s’intende. Sarà il trionfo dei Vanzina e degli Squitieri  le opere dei quali, guarda caso, sono tra le più inesportabili nel mondo. Realizzeremo così il sogno autarchico – quaresimale, in tutto e per tutto. Meno male che tra un po’ comincia Cannes.