Piena avvertenza e deliberato consenso

Piena avvertenza e deliberato consenso

In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325).

Una preghiera per la salvezza eterna non si nega a nessuno ma  piena avvertenza e deliberato consenso, condizioni senza le quali, ogni disobbedienza alla legge divina non può dirsi tale,impediscono la celebrazione del  funerale in chiesa, com’era nei desideri di Piero e della sua famiglia.Se così dev’essere, così sia.Domani alle dieci in piazza Don Bosco A Roma,  saluteremo da laici, il laico Piergiorgio Welby, e andremo avanti nella sua lotta, che adesso più che mai sentiamo nostra.

Buonanotte Piero

Buonanotte Piero

Con Piergiorgio Welby nel cuore.Sempre.

Ora, non ci sono parole scritte o dette  in questi giorni (accanimento terapeutico,rifiuto della cura,indisponibilità del bene vita),che non suonino , imbarazzanti  e inadeguate, eppure dentro ognuna di queste parole abbiamo messo l’anima per far sì che divenissero adatte,comprensibili,evidenti.L’unico concetto che ci si  sente di esprimere, ha la gravità del macigno e più ancora : la denegata giustizia che ferisce le coscienze.Segue, il senso d’impotenza per non avercela fatta a spostare nemmeno di un millimetro la situazione che rimane quella che era, con l’aggravante della perdita di Piero del quale si sono rispettate le volontà e di questo ci si può sentire sollevati ma che lascia comunque un grande vuoto.

Accanimenti

Accanimenti

Stefano Rodotà lamenta sulla Repubblica  del 18 dicembre  la rinunzia da parte della magistratura al proprio compito di essere il luogo istituzionale dove le nuove domande di diritti ,trovino immediate risposte sulla base dei principi già esistenti nel sistema giuridico.L’occasione gli è  data dalla decisione con la quale il  Tribunale di Roma,ha respinto la richiesta di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità.In linea di principio nessuna obiezione.Il nostro sistema giuridico vede al centro la persona con la propria volontà,non più paziente sottoposto al volere del medico ma “soggetto morale” al quale competono le decisioni riguardanti i drammi dell’esistenza.Lo conferma anche la sentenza dei giudici di Roma che legittima il rifiuto di cure ivi definito come un diritto soggettivo perfetto al quale però mancano le condizioni per la sua concreta tutela e cioè la mancata specificazione di cosa debba intendersi per accanimento terapeutico e per  indisponibilità del bene vita.Ora se è pur vero che tra rifiuto di cure e accanimento terapeutico c’è una differenza sostanziale che nella sentenza non viene evidenziato e che ,nella fattispecie, il medico avrebbe dovuto limitarsi ad accertare la volontà della persona senza compiere alcuna valutazione discrezionale, è altrettanto vero che il percorso indicato dall’art 32 della Costituzione “la salute è diritto fondamentale dell’individuo,non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per legge e mai la legge può violare” traccia una strada altrettanto dubbia di quella che ha condotto i magistrati di Roma, secondo i quali non sarebbe possibile fondare una decisione giudiziaria sull’accanimento terapeutico poichè questa nozione come altri principi è incerta ed evanescente,a ritenere inammissibile il ricorso.Comunque la si veda la vicenda ha molte storture che sono tutte date dalla mancanza di adeguata regolazione in materia.Se si pensa che il legislatore avrebbe potuto porre fine alla querelle con una legge sul testamento biologico, si capisce immediatamente che   si parla  non di approssimazione culturale nella terminologia del diritto (che pure è un problema quando si tratta di orientarsi tra concetti quali “comune senso del pudore” o “buona fede”) ma di vera e propria vacatio.I giudici  avrebbero potuto far di meglio?Oh si certo.In un altro paese probabilmente.Ed è proprio la considerazione che in questo paese il tema dei diritti è continuamente disatteso dal partito trasversale dei cattolici onnipresenti in ogni schieramento e con i quali non ci si riesce ad accordare nemmeno sul concetto di cura, figuriamoci sul resto, che deve aver indotto i giudici a rifiutare il ruolo di supplenti,poichè nel caso di Welby non è di aggiustamento legislativo che c’è bisogno ma di una riconsiderazione generale di tutta la materia.Cosa sarebbe della nostra vita se politici così disposti a svicolare su temi definiti, con orribile attributo, sensibili,potessero contare su una magistratura disposta effettivamente a interpretare i principi e lo spirito del nostro ordinamento anche in assenza di norme specifiche?I cittadini hanno diritto a certezze e si aspettano che a rispondere sia un Parlamento che rifiuta di ricevere sia i sacrifici umani che le  pressioni di un corpo martoriato.Fatela la giustizia.E senza supplenti.

Power to the people (che noia il blog statunitense)

Power to the people (che noia il blog statunitense)

In principio la lista dei prescelti comprendeva,tra gli altri, la solita Condoleeza,Benedetto XVI,Rumsfeld e Ahmadinejead che negli Stati Uniti è oggi considerato il nemico numero uno.Tra le “ventisei personalità che hanno avuto importanza negli ultimi dodici mesi” c’era rischio che l’attesissima copertina di Time di fine anno,fosse dedicata proprio ad  Ahmadinejead.Meglio  dunque evitare l’imbarazzo di difficili ed elaborate  "motivazioni" e risolvere il dilemma con un onnicomprensivo tributo ad una comunità  che conta  milioni di persone e che sta trasformando dal basso la politica,l’arte, il commercio.Così Richard Stengel,direttore del settimanale ha inserito un video su You tube chiedendo agl’internauti di nominare i loro candidati  al titolo di  "Person of the year”.Da questi contributi Time ha selezionato 15 blogger pubblicandone,sponsor munifico la Chrylsler,  opportuna galleria fotografica e breve curriculum, nell’ultimo numero.E ottimisticamente titolando : “Power to the people”.Ne è venuto fuori un compendio abbastanza deludente,visto quel che si sarebbe potuto trovare in giro, di “tipi da web” in cui, a proposito di stereotipi,non poteva mancare  Wordsmith at war il mil blog del Capitano Lee Keilley  from Iraq pronto a raccontarci come stanno veramente le cose e molto disappointed per come i media rappresentano il conflitto.Un classico.

 

Oppure questa sorridente casalinga coreana, reporter di cronaca cittadina per Oh my news,giornale online di controinformazione scritto da quarantasettemila giornalisti dilettanti, sparsi per tutta la Corea del sud.

 

O Lane Hudson il paggetto del Senato che sotto campagna elettorale ,ha messo nei guai un esponente repubblicano, denunziando in un post su News for the left il suo blog, le di lui molestie sessuali.

Il resto della galleria è composto da “lonelgirls" musulmane del Maryland,rapper in abito tradizionale e schizzati di natura varia che passano, a quanto riferisce,senza batter ciglio, il Time, sei ore al giorno ad aggiornare Wilkipedia,molto celebrata (insieme a You tube), come simbolo del sapere collettivo.Se le cose stanno così probabilmente l’esperienza dei diari in rete è al capolinea e ha bisogno di rigenerarsi  ma non tanto perchè a fare la cronaca e forse a scrivere la storia , siano le massaie o i capitani dell’esercito ma perchè lo strumento per essere davvero  democratico ha bisogno di quell’interattività che manca persino al blog di Hudson,il più interessante tra quelli visitati.Lo sanno molto bene gli Iran blog,guardati a vista dalla censura , degli studenti che in rete tengono persino le assemblee e che oltre al confronto promuovono iniziative, vedi l’ultima protesta al Politenico di Teheran.Ma forse non è l’esempio del blog politico ad essere del tutto calzante,si può tranquillamente essere sul web  con un diario intimo o non sense,poi bisognerebbe anche essere interessanti e lo strumento di per sè non basta a garantire altro, se non la possibilità di essere “visti" da molti.Il blog è uno stimolo,il resto lo fanno gli altri con le loro considerazioni e gli altri sono quelli che non ti capiterebbe mai d’incontrare e ai quali, con i tuoi post, dovresti costruire ponti d’oro.Il conferimento di Time sta a significare quanto distante sia la percezione della stampa tradizionale dalla realtà delle cose.Soprattutto sfugge a Time la differenza che passa tra chi usa le tecnologie  per prendersi la parola che non ha mai avuto e chi per riproporre conoscenza-merce contrabbandata per altro.Ciò detto, e visto il panorama deprimente dei celebrati “personaggi" ,non sarebbe stato meglio un bel ritratto a tinte fosche di Mahmoud Ahmadinejead magari con codazzo di polemiche ed esecrazioni?

Se il fine giustifica i mezzi

Se il fine giustifica i mezzi

 

Il presidente palestinese Abu Mazen, con una mossa forse non del tutto  illecita sotto il profilo della costituzione approvata al tempo di Yasser Arafat ma certo molto poco rispettosa della volontà liberamente espressa dal popolo, vuole indire nuove elezioni con l’obiettivo dichiarato di scalzare dal potere Hamas. Non hanno tutti i torti i dirigenti di quel partito di gridare al golpe (ovviamente non di sparare colpi di mortaio sull’ufficio del presidente a Gaza).
La mossa di Abu Mazen corrisponde agli orientamenti (se non ai desideri e alle pressioni) degli attuali governi degli Usa e di Israele, di una parte dell’opinione pubblica e dell’establishment europeo  i quali ritengono che lo scontro in atto nella regione sia, fondamentalmente, uno scontro tra democratici per definizione filo-occidentali e non democratici per definizione anti-occidentali.Agli occhi di costoro  l’intenzione poco democratica di Abu Mazen ha la salvifica connotazione del fine che giustifica i mezzi. Se serve a far trionfare la “parte giusta”, anche su uno strappo alle regole della democrazia si possono chiudere gli occhi. È apparentemente la logica che fu dietro al consenso generale con cui, salvo pochissime eccezioni, fu accompagnato il colpo di stato che mise in mora il risultato che aveva premiato gli estremisti islamici del Fis nel ’91 in Algeria: piuttosto che vedere dei tagliagola al governo di un paese importante e con una classe dirigente di tradizioni laiche, meglio accettare come male minore una “provvisoria" sospensione della democrazia.
Ma a differenza di quanto avvenne con l’Algeria quindici anni fa, lo strappo non conterebbe su un consenso internazionale quasi unanime. Al contrario: una buona parte del mondo islamico lo considererebbe un atto di ostilità, la prevaricazione di una parte contro un’altra, degli epigoni di un regime corrotto sui difensori del popolo e, soprattutto, di una classe dirigente troppo propensa al compromesso “con il nemico” sui più intransigenti paladini dell’indipendenza palestinese. Date queste premesse, non è difficile immaginare con quanta virulenza la lotta si riaccenderebbe, tanto fra le fazioni a Gaza e in Cisgiordania, quanto tra i moderati palestinesi e i regimi, e le forze, dell’Islam più radicale.

Poiché Abu Mazen ha dimostrato di essere un politico molto accorto, è impensabile che non abbia calcolato la diversità con il caso algerino e i rischi di una ulteriore radicalizzazione dei contrasti, in Palestina e fuori. L’unica spiegazione è perciò che dietro la sua intenzione ci sia la speranza, se non la certezza, che Fatah possa vincere nelle urne contro Hamas. Presupposto di una simile convinzione è che i fondamentalisti siano divisi e profondamente indeboliti dal loro fallimento politico: la bancarotta dell’Anp, l’evidente delusione in quanti avevano creduto alle lusinghe di quella sorta di welfare d’ispirazione religiosa che Hamas prometteva e in qualche modo già praticava, l’isolamento internazionale.
Ma è fondato questo pregiudizio del presidente palestinese e dei vertici di Fatah? Molti dubbi sono leciti. Divisioni all’interno di Hamas certamente ci sono, e Abu Mazen cerca probabilmente di metterle a frutto. Ma l’isolamento del movimento è molto relativo. Inoltre, tutta la storia del Medio Oriente (e non solo) dimostra che nei processi di radicalizzazione sono proprio le componenti più radicali ad avvantaggiarsene fin dall’inizio a , a dispetto dell’approccio razionale ai problemi. L’approfondirsi delle divisioni all’interno del campo palestinese, così come del campo arabo e islamico in generale, non hanno mai avvicinato di un passo né la pace, né, più modestamente, un approccio più realistico e positivo al confronto. Per dirla in un altro modo, una guerra civile aperta e dura in campo palestinese indebolirebbe sicuramente l’Anp ma non rafforzerebbe certo Israele, né aiuterebbe gli occidentali che per esercitare la loro mediazione hanno bisogno di interlocutori anche ostili ma comunque il  il più possibile rappresentativi.
È una lezione, quest’ultima, che i dirigenti israeliani non sempre hanno mostrato di recepire giocando spesso sulle divisioni nel campo palestinese, e della quale dovrebbe essere capaci di tener conto anche gli americani e gli europei. Dove ha fallito l’esportazione della democrazia con le armi, sono destinati a fallire anche i distinguo nell’applicazione della democrazia formulati in base alla considerazione se i protagonisti siano “amici" o “nemici"