La parte giusta della storia (a moral choice)
“
Vince The green book ben confezionato prodotto di luoghi comuni e morale della favola su come vanno le cose tra un driver bianco volgare e un nero artista raffinato, non un brutto film ma con il difetto di non mettere a profitto a sufficienza il rovesciamento dei ruoli tradizionali, riuscendo ad essere nel contempo un po’ risaputo.
Un classico Oscar insomma, cosa che giustamente ha indispettito il caro Spike, ben lieto della seppur consolatoria miglior sceneggiatura del suo BlaKkKlansman ma polemico come solo lui sa essere e non solo con le scelte dell’Academy. Ogni volta che c’è qualcuno che guida io perdo. E infatti, che sia il nero Hoke Colburn a scarrozzare Daisy nel 1990 o il bianco Toni Lip a portare in tourné Don Shirley nel 2019, il risultato non cambia e Spike perde in entrambi i casi l’occasione.
Si rifà animando palco e platea con un discorso di ringraziamento dalla chiusa travolgente :
The 2020 presidential election is around the corner. Let’s all mobilize, let’s all be on the right side of history. Make the moral choice between love versus hate,” he said. “Let’s do the right thing! You know I had to get that in there.” Non nomina direttamente Trump ma pochi minuti dopo è Trump a nominare lui tacciandolo di razzismo e ricordando quanto di buono e bello abbia realizzato la sua presidenza per la gente di colore (sempre all’erta stanno su internet questi presidenti e non parliamo dei ministri)
Quanto al resto : togli il conduttore per via di certe battute omofobe e silenzia il regista per ragioni analoghe, taglia qua e censura di là, della cerimonia più attesa non restano che le mise, ovvero le ciabatte Arizona di Frances McDormand indossate su sontuoso Valentino Haute Couture e spiegate dal direttore creativo Piccioli come un delicato contrasto e un’inclusiva testimonianza d’inclusività (che vor dì?).
E pensare che ogni anno gli 8.500 membri dell’Academy si danno un gran da fare tra complicati metodi di selezioni e votazioni in più riprese cui applicare sistemi prima maggioritari, poi proporzionali con tanto di soglie di sbarramento e distribuzione dei resti, un sistema da piccolo Stato che tiene alla democrazia ma così macchinoso da richiedere ogni anno l’intervento di una multinazionale di revisione dei conti per le operazioni di spoglio e conteggio. Ovviamente non può essere un metodo complicato di attribuzione dei voti a garantire la qualità.
Senza considerare il tentativo dell’estate scorsa di avvicinarsi al popolo (planetaria fissazione) istituendo la categoria outstanding achievement in popular film . Poi, vuoi le immancabili polemiche, vuoi il fatto che non s’erano ben capiti i criteri che avrebbero dovuto rendere popular un film e vista la già cospicua presenza nelle cinquine di ogni edizione dei vari Titanic e Compagnie dell’anello, non se ne è fatto niente.
Resta comunque inteso che nonostante tutto, ogni anno qualcosa di buono e di bello viene anche premiato, vedi i magnifici Roma di Cuaròn o The Favourite di Lanthimos o If Beale Street Could Talk tratto dall’omonimo libro di James Baldwin. (accorrete numerosi, possibilmente al cinema). Così, tanto per dire che tentativi non ricattatori e convenzionali di trattare temi come il razzismo ovvero il raccontare un intero Paese attraverso la piccola storia di una domestica, siano possibili. Forse l’ autenticamente popolare sta proprio nel dire le cose che si conoscono bene, con naturalezza e senza bisogno di ricorrere a schemi precotti. Istituendo nuove ed apposite sezioni si ottiene solo di aggiungere complicazioni alla confusione.
Infine delusione ( tutti dicono) per Glenn Close pronta e impacchettata per ricevere la statuetta ma che purtroppo si è portata sulle spalle tutta sola il peso di una storia ( The Wife), non all’altezza del suo talento (dietro un grande uomo bla bla c’è una grande donna, alle volte persino al posto di un grande etc… ma non si stancano mai di rimescolare la stessa eterna zuppa?)