Fragile virtù ( ma solo in apparenza)

Fragile virtù ( ma solo in apparenza)

Tra le cose migliori viste al Festival di  Roma. Easy virtue , testo teatrale anni 30 di Noël Coward, già utilizzato da Alfred Hitchcock per uno dei suoi film d’esordio, sarebbe un concentrato un di tutti gl’ingredienti e i luoghi comuni del genere, se il regista Stephan Elliot – suo è il memorabile Priscilla regina del deserto – non avesse rimaneggiato  la piece con aggiunte di piccoli tocchi surreali, noir, talmente divertenti da ricordare in qualche occasione i Monthy Python, dominando il tutto una vena caustica che della commedia inglese è la caratteristica principale.

Ed è così che non sembrano già rimasticati quegli ingredienti : la giovane americana misteriosa al volante dell’automobile, che irrompe al castello di proprietà della nobile famiglia inglese del neosposo, il conflitto tra vecchio e nuovo mondo, quello tra suocera e nuora, la commedia dell’irriverenza per il cerimoniale che è tanto noioso ma che poi alla lunga finisce con l’essere terribilmente affascinante, ovvero la considerazione finale che tra la Caccia alla Volpe e andare alla Caccia alla Volpe in moto per stupire, è molto più folle e trasgressiva la prima opzione.

Film molto accurato, con attori navigati, sapientemente diretti e dai tempi comici ben studiati. Piacevole scoperta del binomio bellezza/ bravura incarnato da Jessica Biel. Colin Firth, convincente bello e desiderabile anche nel ruolo del suocero complice ma un po’ sgualcito. Kristin Scott intensa come sempre.

 Easy Virtue è un film di Stephan Elliott. Con Jessica Biel, Colin Firth, Kristin Scott Thomas, Ben Barnes, Kimberley Nixon, Katherine Parkinson, Kris Marshall, Christian Brassington, Charlotte Riley, Jim McManus, Pip Torrens, Georgie Glen, Laurence Richardson. Genere Commedia, colore 96 minuti. – Produzione Gran Bretagna 2008

The yes is the new no

The yes is the new no

Non inganni il titolo – Yes man – poichè non è di acquiescienza o piaggeria, ne’ della nota Band Situazionista che si parla in questo film, piuttosto degli esiti nefasti che una certa qual abitudine a opporre rifiuti alle possibilità  di aprirsi al mondo, a nuove esperienze o anche solo a voler considerare possibili alternative  alle modalità consuete, comporta. 

Dunque se la vita nella Città degli Angeli – della quale il gentile pubblico finalmente potrà ammirare altre location  che non siano il  Sunset o Wiltshire Boulevard – è diventata un inferno, la fidanzata ti lascia, gli amici si lamentano di te e il lavoro in banca, come ti sbagli, si risolve nella solita ripetitiva afflizione, l’unica è un guru new age che ti tiri fuori dalle peste

 Meglio ancora se interpretato dall’impeccabile  Terence Stamp,  che predica in consessi  parodistici e allusivi ( Scientology, ovvio) la filosofia del si.  

Il si è il nuovo no, avverte lo slogan dell’ approccio positivo con il mondo. Il che dovrà significare per Carl Allen, il superdepresso executive alla canna del gas, dire di si a tutti e a tutto per almeno un anno. Un corso di coreano, un concerto punk rock femminista deformante, sesso estremo con improbabili e anziane partner, passeggiate in ore antelucane e molto altro ancora. Carl Allen non si tira indietro innanzi a nessuna proposta. La nuova disponibilità lo trascinerà in avventure paradossali, surreali, divertentissime  ma gli offrirà nel contempo la possibilità di scoprire quei versanti, quelle possibilità che a forza di dire sempre no si è precluso.

Commedia sofisticata, esilarante con un Jim Carrey in forma smagliante, vivace e mobilissimo – oltre essersi fatto da sè anche gli stunt più pericolosi, come buttarsi col bungee jumping dal ponte dei suicidi a Pasadena – e un modo lieve, di far passare una lezioncina che certo di poco conto non è. Alla fine è possibile che il cambio di passo si riveli utile sotto profili inattesi, anche se essere una persona risolta, non impedirà alla CIA di stare alle costole di Allen magari perchè  parla coreano o perchè si chiama Carl. Proprio come Marx.

Un film di Peyton Reed. Con Jim Carrey, Zooey Deschanel, Bradley Cooper, John Michael Higgins, Rhys Darby, Danny Masterson, Fionnula Flanagan, Terence Stamp, Sasha Alexander, Molly Sims, Brent Briscoe, John Cothran Jr., Spencer Garrett, Sean O’ Bryan, Rocky Carroll, Patrick Labyorteaux. Genere Commedia, colore 102 minuti. – Produzione USA 2008. – Distribuzione Warner Bros Italia

The way we were

The way we were

Succede a Fabrizio de Andrè quel che già successe con Jacques Brel, chansonnier e compositore di grande talento, anarchico e, quanto a descrizione di quell’ambiente borghese che fin troppo bene conosceva, assai più arrabbiato e cattivo di quanto Georges Brassens con i suoi  liberatori Mort aux vaches, Mort aux lois, vive l´anarchie! riuscisse ad essere.

Anche nel caso di Jackie c’è una Fondazione molto attiva e guidata con mano ferma ed avveduta da una figlia piuttosto sensibile alla problematica del copyright, come pure non si contano le mostre, le commemorazioni, gli spettacoli di artisti famosi e meno, che in ogni parte del mondo interpretano  le sue canzoni. Jacques Brel è cantato in cinese, in russo, in giapponese e persino in creolo.

Ovviamente in una simile gigantesca appropriazione, il mercato si guarda bene dal fagocitare i testi più sovversivi e il povero Brel con i suoi circa duecento brani, viene identificato con Ne me quitte pas, al più con la Chanson des vieux amants. Altrettanto ovvio il tentativo di traghettare l’autore de Les Bourgois, de Les Bon bon de Les singes o di Jaures in territori artistici assai più tranquilli di quelli in cui effettivamente navigava, ovvero di farne un cantante per famiglie o per nostalgici  di mezza età.

A seguire i racconti di radio e televisione o dei  giornali che celebrano, in questi giorni,  il De Andrè poeta, intellettuale, maître à penser – a volte  pare che non se ne è avuti altri – anche attraverso accenni agli anni in cui è vissuto, sembra tutto facile, piano. La rivolta delle giovani generazioni, il tragitto artistico del cantante antagonista, tutto sembra essere appartenuto ad un fluire  spontaneo, lieto  e senza intoppi. Eventi in successione, posti su  binari ben oliati, tra il generale plauso per la spazzatura e i fiori delle Suzanne o per la vocazione al trionfo e al pianto delle Giovanne D’Arco.

Meno male  il Caso che invece proprio ieri, ci ha offerto l’opportunità di ricordare in quale clima, in quale paese si è invece sviluppato il lavoro di Fabrizio De Andrè. Anni non semplici in cui le pantere che ci mordevano il sedere non appartenevano solo alle forze di polizia ma potevano anche chiamarsi SISDE o che so io. Ed ecco che il Com’eravamo assume una connotazione meno festosa e gaia e anche al Vate De Andrè scolorano un po’ i tratti, divenendo meno universali  e condivisibili da ognuno.

Tuttavia, a meno di stecche o interpretazioni incolori, non sono tra quelli che si lamenteranno mai perchè a Samuele Bersani o a Tiziano Ferro, questa sera all’interno della trasmissione di Fabio Fazio, saranno affidate rispettivamente le esecuzioni del Bombarolo e de Le Passanti ( per queste ultime, eventualmente si lamentino anche i Brassensiani). Dispiaccia o no, il meno siamo e più ci divertiamo, riferito all’arte o alla musica o alla Conoscenza in genere, è un modo un po’ provincialotto e demodée che ancora sopravvive in minuscole congreghe dedite esclusivamente alla riproduzione di se stesse. Se un solo fan di Tiziano Ferro stasera, butterà dentro il motore di ricerca la dicitura Storia di un impiegato o il nome Georges Brassens ne sarà valsa la pena. De Andrè vive e questo è uno dei modi per cui resti vivo a lungo.

Ma la verità su quegli anni non può essere estromessa dal pacchetto divulgativo delle celebrazioni, altrimenti i conti non tornano. Dai diamanti non nasce niente non è verso  che viene dal nulla dal letame nascono i fior non sono cose queste da mamme, da nonne e da zie.

Foto di Piero De Marchis (il sito è creuza de ma)

De Andrè vive

De Andrè vive

Deandrevivo
Dire di Fabrizio de Andrè all’epoca delle celebrazioni nel decennale della scomparsa, è l’impresa che è.
Poichè tutto è stato scritto, cantato, filmato, mostrato in mille iniziative, libri e trasmissioni, il senso delle cose rischia di sfumare nella ripetitività, il valore artistico nella mitizzazione, lo spessore civile ed umano
nel racconto di episodi spezzettati  e scollati dalla  coerenza del tracciato biografico.
Riti funebri, in qualche caso, che mal si addicono alla vitalità intrinseca di un’Opera che sembra invece fatta per durare alimentando altre opere, altre riflessioni. Col tempo tuttavia, s’impara a leggere nell’entusiamo inspiegabile di chi  era troppo giovane per apprezzare la sua musica, un tratto di affetto piuttosto singolare, per quello che in definitiva, è un cantante del passato. Anche in certa venerazione da vecchi fans, patiti dei ricordi, sopravvive nonostante gli sguardi perennemente rivolti all’indietro, lo stesso tratto di autentico sentimento.

De Andrè è vivo ( e resiste al processo di beatificazione). E’ scritto con due esclamativi su di un muro assai fotografato, con A anarchica cerchiata, griffe e insieme omaggio all’ Ideale di sempre.
E dunque, se così è, celebriamolo da vivo.

In questi giorni  per esempio,  è quasi impossibile non pensare a Sidùn – Sidone – rappresentata come un uomo arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato e questo accade per la stessa ragione per cui tempo addietro in occasione di alcune poco brillanti iniziative del governo, venivano alla  mente Korakhanè, Bocca di Rosa o Princesa.

Non tanto per loro, i personaggi, quanto per l’inalterato clima di sotterranea  o esplicita violenza che ancora avvolge le storie degli ultimi, dei diversi. Violenza dei provvedimenti, di sicuro –  dunque emanazione diretta del Potere –  che però interpreta un comune sentire al quale andrebbero assimilati  i molti ma e se di Insospettabili, che nel corso del tempo sono andati ad ingrossare le fila di maggioranze non più silenziose.

Non serve pertanto nell’esercizio vagamente  necrofilo del cosa avrebbe detto, interrogare chi purtroppo non è più. Ne’ esaltarne – altro tic – le capacità profetiche. Piuttosto prendere atto che collocarsi dal lato opposto a quello da cui spira il vento, rappresenta non solo un’occasione di riscatto, ma consente un punto di osservazione che io definirei alla giusta – ancorchè non prudenziale –  distanza, mai eccessiva da esimersi di cantare l’astio e il malcontento, ne’ troppo ravvicinata ad evitare contaminazioni che depotenzino e asserviscano il canto.

Solo questa postazione probabilmente, consente di guardare oltre i singoli episodi, le dinamiche spicciole. Non il prevedere dunque, dei maghi, dei santoni o dei profeti, ma il semplice vedere possedendo nel contempo il generoso talento di saper mostrare agli altri.
In aggiunta, le molte lezioni impartite senza averne mai l’aria,  tutte derivanti però da un’ unica radice : il pensiero libertario.
Resistente ai cedimenti dell’ideologia, dilagante  dalla prima canzone fino all’ultima e nella scelta mirata dei brani di altri autori da tradurre, adattare, riportare a nuovi significati. La vera spina dorsale di tutta la sua produzione è in quella Idea.
Fabrizio De Andrè si è insinuato nel nostro modo di pensare prima ancora di essere parte dei nostro bagaglio sentimentale, anche per questo il piombo fuso di Gaza ci riporta al dramma di Sidone...euggi di surdatti chen arraggë cu’a scciûmma a a bucca cacciuéi de baëa scurrï a gente cumme selvaggin-a finch’u sangue sarvaegu nu gh’à smurtau a qué

e alla breve chiacchierata che accompagnava l’esecuzione del brano nei suoi concerti :

La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.

Sono anch’io tra quelli che gli vogliono bene. Mille anni e mille anni ancora

 


Made in Israel

Made in Israel

Nel momento in cui i conflitti sparsi per il mondo ci vengono rappresentati  soprattutto attraverso la diffusione di migliaia di immagini, un Cinema che racconti la guerra potrebbe assumere un significato di tutta  marginalità Così non è, anche se la visione spesso impietosa di corpi martoriati, soldati all’attacco, o gli skyline di città lontane illuminate a giorno dalle esplosioni o le popolazioni in fuga con i loro poveri bagagli e i figli tra le braccia, dovrebbero parlare alle coscienza più di molte parole e di molte fiction.

Tuttavia esposti come siamo ad indistinto e casuale bersagliamento mediatico, il rischio assuefazione da immagini  embedded o da una riproduzione per eccesso che  privi le stesse  della capacità d’ impatto o di ribellione, esiste. Dunque noi dovremmo essere grati a quel cinema che lungi  dall’assillo delle risposte o delle spiegazioni o della tesi da dimostrare, costantemente impegnato in una sorta di ricerca di modalità in cui l’immagine ritrovi la sua potenza e la sua natura politica. Qui di seguito due distinti esempi di cinema israeliano di eccellenza in cui quella ricerca ha dato esiti di grande efficacia, ingaggiando una sfida alla realtà che non è solo la sua narrazione.


Stile graphic novel ma anche  manga e pop art in elegante abbinamento, per questo Valzer con Bashir, cartoon dell’israeliano Ari Folman. Presentato a Cannes 2008 proprio il giorno dell’anniversario nella nascita dello Stato d’Israele, festeggiato, quest’ultimo, da visita ufficiale di George Bush a Tel aviv e incursione aerea israeliana su Khan Yunis  –  stessa località in cui qualche giorno fa tre soldati israeliani caddero vittime del fuoco amico – seguita da rituale lancio di Katiuscia da Gaza, con buona pace di Frattini & Co che va ancora cercando, in questo groviglio di eventi, chi ha cominciato.

Film che sarà (casualmente ) nelle sale da domani e che affronta uno dei capitoli più dolorosi della questione   mediorientale. Anno 1982, guerra nel Libano, falangisti cristiani per vendicare l’omicidio di Bashir Gemayel, neo presidente libanese, massacrano oltre tremila palestinesi trai quali anziani, donne e bambini, nei campi di Sabra e Chatila con la complicità dell’esercito israeliano.

In Israele si è soldati oltre il raggiungimento dell’età matura, tuttavia i riservisti possono anticipare il congedo, Folman ne fa richiesta. L’iter burocratico  prevede il colloquio con uno psichiatra. Folman, diciannovenne, era di stanza a Beirut nei giorni del massacro, ma di quel periodo non conserva ricordi  nitidi, solo è  perseguitato da  incubi ricorrenti

E’ un’esperienza comune ad altri ex commilitoni,  come quello della  muta terrificante di cani che corre in città e che travolge ogni cosa finchè si ferma minacciosa sotto le finestre di un ragazzo che è poi la sequenza di apertura del film. Lo psichiatra spiegherà che il meccanismo di rimozione è comune in molti ex soldati. Di qui, dal vuoto,  l’esigenza di rimettere insieme  il puzzle attraverso memorie rimosse, trasformate in sogni o deliri. Un percorso cognitivo, al quale parteciperanno ex commilitoni o testimoni diretti convocati da Folman tramite un annuncio su internet. Ho ricevuto più di cento telefonate : dopo tanti anni le persone  avevano voglia di raccontare la verità.

Una galleria di interviste e di racconti, da quello dell’ufficiale che consuma pornografia a quella del soldato che si produce in una danza sparando all’impazzata sullo sfondo di una gigantografia di Bashir Gemayel. Poi ci sono i compagni di allora, giovanissimi, terrorizzati, sui tank  impreparati a trovarsi in mezzo alla macelleria di ragazzini e di intere famiglie.Non ci sono esitazioni  nel definire la guerra insensata e inutile come pure l’invasione del Libano che non portò a niente, attraverso il racconto dell’abbrutimento degli uomini in divisa giovanissimi, inebetiti e incoscienti, catapultati in mezzo alle pallottole dei cecchini.

 

Ari Folman sceglie il disegno, l’animazione come strumenti attraverso i quali realtà  e delirio si possono rimescolare con assoluta efficacia. Immagini crude e dolorose quando è di scena la guerra, puro piacere visivo quando la rappresentazione richiama l’inconscio, il sogno. Solo così il regista  può esprimersi pienamente e nel contempo tener fede al proprio cinema di riferimento : uno spirito d’indagine alla Rashomon, la citazione esplicita di Apocalipse Now nella sequenza della spiaggia e del surfista col mitra.

Ma tutto ciò è premessa della sequenza finale affidata questa volta alle immagini verità introdotte da una bambina disegnata come un angelo dormiente tra le macerie : la visione disumana dei corpi martoriati, le urla di dolore : il sangue di Sabra e Chatila non si può reinventare con immagini, ne’ ci sono parole adatte a descriverlo. Quel vero così atroce è il mio giudizio su quel che è accaduto.

Colpisce moltissimo, il personale doloroso sforzo di fare i conti col proprio passato di soldato, del regista. Quantunque alla verità storica su Sabra e Chatila manchi qualche elemento in più in ordine alla responsabilità diretta di Ariel Sharon nelle operazioni di distruzione dei campi, esiste in questo film la consapevolezza che gli psichiatri possono sostenere l’impegno a convivere con sensi di colpa individuali. Le responsabilità storiche rimangono. Tanto basta.

L’uscita nelle sale come già detto, è casuale rispetto agli avvenimenti di questi giorni, ma, fa notare Ari Folman, film del genere rischiano di essere sempre attuali, visto che tra i nostri governanti non c’è nessun rispetto ne’ pietà per la morte di altre persone.


Valzer con Bashir è un film di Ari Folman del 2008. Prodotto in Francia, Germania, Israele, USA. Durata: 90 minuti. Distribuito in Italia da Lucky Red a partire dal 09.01.2009.

 

 

Z32  invece, film del dissidente Avi Mograbi autore di opere fortemente critiche e di attacchi  diretti alla politica di Israele, almeno per ora, non è in programmazione nelle sale, ne’ si prevede a breve. Presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, racconta la storia della rappresaglia organizzata per vendicare l’uccisione di sei militari israeliani. Esecutori sono giovanissimi soldati delle unità speciali, sottoposti per mesi ad un duro addestramento il nucleo del quale è  uccidere l’arabo senza interrogarsi troppo L’ordine infatti è di colpire alla cieca.

Mograbi utilizza i materiali degli archivi di Shovrim Shtika –  Rompere il silenzio – l’associazione di ex-soldati che raccoglie le testimonianze di chi ha prestato servizio nei Territori occupati – Z32 è la sigla di alcune tra esse che riguardano, appunto, quella missione di vendetta.

Anche qui come per valzer si avvicendano interviste filmate dei protagonisti che però hanno il volto sfumato, per non essere riconosciuti. Ma nonostante simili siano i racconti, le rimozioni, la ricerca del perdono o l’indifferenza nei confronti del nemico, il taglio diventa altro nel momento in cui Mograbi coglie l’occasione per riflettere sulla responsabilità dell’artista nei confronti del racconto. Non si tratta dunque soltanto del conflitto tra Israele e Palestina, l’impegno costante del cinema di Mograbi, di allontanarsi dall’iconografia classica della guerra in medioriente, lo conduce al di là di Israele, a compiere un  indagine approfondita su che cosa vuol dire essere soldato.

 Non c’è dunque nessuna differenza tra i racconti di questi ragazzi  e i comportamenti dei soldati americani in Iraq , che neppure si sono preoccupati di celarsi nell’anonimato, esibendo anzi, le proprie prodezze e diffondendole in Internet, o di tanti altri eserciti in conflitti e occupazioni sparsi per il mondo. La differenza semmai concerne la reazione della collettività nella sua capacità di prendere le distanze di non uniformarsi alla visione univoca del nemico come terrorista in ogni caso. E dunque sul ruolo dell’informazione e delle immagini.

Il film non mostra le azioni di guerra, è girato in interni  mentre si avvale dell’unico esterno la ricerca e la ricognizione del luogo dove si sono svolti i fatti. I ragazzi non lo sanno, non ci pensavamo a dove eravamo diretti, mai, eravamo troppo stanchi, sui pullman si dormiva dicono. Mograbi lo trova. Nessuna traccia di violenza, soldati, armi. Una donna anziana attraversa il campo. Durante l’azione di rappresaglia nessuno si è  chiesto chi fossero le vittime e da quali famiglie provenissero. Erano poliziotti palestinesi, un vecchio disarmato. La rappresaglia, che brutti ricordi, la praticavano anche i nazifascisti durante la guerra, è stata messa in atto nella ex-Jugoslavia, in Vietnam… Se mi vedono e esco da Israele magari mi arrestano per crimini di guerra chiosa un ragazzo.

 

Z32 è un film di Avi Mograbi. Genere Documentario, 81 minuti. – Produzione Francia, Israele 2008.