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The way we were

The way we were

Succede a Fabrizio de Andrè quel che già successe con Jacques Brel, chansonnier e compositore di grande talento, anarchico e, quanto a descrizione di quell’ambiente borghese che fin troppo bene conosceva, assai più arrabbiato e cattivo di quanto Georges Brassens con i suoi  liberatori Mort aux vaches, Mort aux lois, vive l´anarchie! riuscisse ad essere.

Anche nel caso di Jackie c’è una Fondazione molto attiva e guidata con mano ferma ed avveduta da una figlia piuttosto sensibile alla problematica del copyright, come pure non si contano le mostre, le commemorazioni, gli spettacoli di artisti famosi e meno, che in ogni parte del mondo interpretano  le sue canzoni. Jacques Brel è cantato in cinese, in russo, in giapponese e persino in creolo.

Ovviamente in una simile gigantesca appropriazione, il mercato si guarda bene dal fagocitare i testi più sovversivi e il povero Brel con i suoi circa duecento brani, viene identificato con Ne me quitte pas, al più con la Chanson des vieux amants. Altrettanto ovvio il tentativo di traghettare l’autore de Les Bourgois, de Les Bon bon de Les singes o di Jaures in territori artistici assai più tranquilli di quelli in cui effettivamente navigava, ovvero di farne un cantante per famiglie o per nostalgici  di mezza età.

A seguire i racconti di radio e televisione o dei  giornali che celebrano, in questi giorni,  il De Andrè poeta, intellettuale, maître à penser – a volte  pare che non se ne è avuti altri – anche attraverso accenni agli anni in cui è vissuto, sembra tutto facile, piano. La rivolta delle giovani generazioni, il tragitto artistico del cantante antagonista, tutto sembra essere appartenuto ad un fluire  spontaneo, lieto  e senza intoppi. Eventi in successione, posti su  binari ben oliati, tra il generale plauso per la spazzatura e i fiori delle Suzanne o per la vocazione al trionfo e al pianto delle Giovanne D’Arco.

Meno male  il Caso che invece proprio ieri, ci ha offerto l’opportunità di ricordare in quale clima, in quale paese si è invece sviluppato il lavoro di Fabrizio De Andrè. Anni non semplici in cui le pantere che ci mordevano il sedere non appartenevano solo alle forze di polizia ma potevano anche chiamarsi SISDE o che so io. Ed ecco che il Com’eravamo assume una connotazione meno festosa e gaia e anche al Vate De Andrè scolorano un po’ i tratti, divenendo meno universali  e condivisibili da ognuno.

Tuttavia, a meno di stecche o interpretazioni incolori, non sono tra quelli che si lamenteranno mai perchè a Samuele Bersani o a Tiziano Ferro, questa sera all’interno della trasmissione di Fabio Fazio, saranno affidate rispettivamente le esecuzioni del Bombarolo e de Le Passanti ( per queste ultime, eventualmente si lamentino anche i Brassensiani). Dispiaccia o no, il meno siamo e più ci divertiamo, riferito all’arte o alla musica o alla Conoscenza in genere, è un modo un po’ provincialotto e demodée che ancora sopravvive in minuscole congreghe dedite esclusivamente alla riproduzione di se stesse. Se un solo fan di Tiziano Ferro stasera, butterà dentro il motore di ricerca la dicitura Storia di un impiegato o il nome Georges Brassens ne sarà valsa la pena. De Andrè vive e questo è uno dei modi per cui resti vivo a lungo.

Ma la verità su quegli anni non può essere estromessa dal pacchetto divulgativo delle celebrazioni, altrimenti i conti non tornano. Dai diamanti non nasce niente non è verso  che viene dal nulla dal letame nascono i fior non sono cose queste da mamme, da nonne e da zie.

Foto di Piero De Marchis (il sito è creuza de ma)

De Andrè vive

De Andrè vive

Deandrevivo
Dire di Fabrizio de Andrè all’epoca delle celebrazioni nel decennale della scomparsa, è l’impresa che è.
Poichè tutto è stato scritto, cantato, filmato, mostrato in mille iniziative, libri e trasmissioni, il senso delle cose rischia di sfumare nella ripetitività, il valore artistico nella mitizzazione, lo spessore civile ed umano
nel racconto di episodi spezzettati  e scollati dalla  coerenza del tracciato biografico.
Riti funebri, in qualche caso, che mal si addicono alla vitalità intrinseca di un’Opera che sembra invece fatta per durare alimentando altre opere, altre riflessioni. Col tempo tuttavia, s’impara a leggere nell’entusiamo inspiegabile di chi  era troppo giovane per apprezzare la sua musica, un tratto di affetto piuttosto singolare, per quello che in definitiva, è un cantante del passato. Anche in certa venerazione da vecchi fans, patiti dei ricordi, sopravvive nonostante gli sguardi perennemente rivolti all’indietro, lo stesso tratto di autentico sentimento.

De Andrè è vivo ( e resiste al processo di beatificazione). E’ scritto con due esclamativi su di un muro assai fotografato, con A anarchica cerchiata, griffe e insieme omaggio all’ Ideale di sempre.
E dunque, se così è, celebriamolo da vivo.

In questi giorni  per esempio,  è quasi impossibile non pensare a Sidùn – Sidone – rappresentata come un uomo arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato e questo accade per la stessa ragione per cui tempo addietro in occasione di alcune poco brillanti iniziative del governo, venivano alla  mente Korakhanè, Bocca di Rosa o Princesa.

Non tanto per loro, i personaggi, quanto per l’inalterato clima di sotterranea  o esplicita violenza che ancora avvolge le storie degli ultimi, dei diversi. Violenza dei provvedimenti, di sicuro –  dunque emanazione diretta del Potere –  che però interpreta un comune sentire al quale andrebbero assimilati  i molti ma e se di Insospettabili, che nel corso del tempo sono andati ad ingrossare le fila di maggioranze non più silenziose.

Non serve pertanto nell’esercizio vagamente  necrofilo del cosa avrebbe detto, interrogare chi purtroppo non è più. Ne’ esaltarne – altro tic – le capacità profetiche. Piuttosto prendere atto che collocarsi dal lato opposto a quello da cui spira il vento, rappresenta non solo un’occasione di riscatto, ma consente un punto di osservazione che io definirei alla giusta – ancorchè non prudenziale –  distanza, mai eccessiva da esimersi di cantare l’astio e il malcontento, ne’ troppo ravvicinata ad evitare contaminazioni che depotenzino e asserviscano il canto.

Solo questa postazione probabilmente, consente di guardare oltre i singoli episodi, le dinamiche spicciole. Non il prevedere dunque, dei maghi, dei santoni o dei profeti, ma il semplice vedere possedendo nel contempo il generoso talento di saper mostrare agli altri.
In aggiunta, le molte lezioni impartite senza averne mai l’aria,  tutte derivanti però da un’ unica radice : il pensiero libertario.
Resistente ai cedimenti dell’ideologia, dilagante  dalla prima canzone fino all’ultima e nella scelta mirata dei brani di altri autori da tradurre, adattare, riportare a nuovi significati. La vera spina dorsale di tutta la sua produzione è in quella Idea.
Fabrizio De Andrè si è insinuato nel nostro modo di pensare prima ancora di essere parte dei nostro bagaglio sentimentale, anche per questo il piombo fuso di Gaza ci riporta al dramma di Sidone...euggi di surdatti chen arraggë cu’a scciûmma a a bucca cacciuéi de baëa scurrï a gente cumme selvaggin-a finch’u sangue sarvaegu nu gh’à smurtau a qué

e alla breve chiacchierata che accompagnava l’esecuzione del brano nei suoi concerti :

La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.

Sono anch’io tra quelli che gli vogliono bene. Mille anni e mille anni ancora

 


La sua cattiva strada (dite a mia madre che non tornerò)

La sua cattiva strada (dite a mia madre che non tornerò)

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La cattiva strada nasce in collaborazione con Francesco de Gregori, nel 1975. Ma come luogo deputato del proprio sistema etico e di valori, Fabrizio de Andrè l’aveva concepita già da tempo. Anzi era proprio lì che aveva cominciato, dalle cattive compagnie – mia madre mi disse: non devi giocare con gli zingari del bosco ma il bosco era scuro l’erba già alta, dite a mia madre che non tornerò – Nei versi di Sally,  che ovviamente non alludono ne’ agli zingari ne’ alla mamma di De Andrè,  &egraveNB; indicata con nettezza, la  scelta  di chi abbandona i privilegi di una condizione borghese con il suo bagaglio di regole e proibizioni, per adottare una filosofia di vita meno agevole ma più libera. Una strada che è cattiva ma solo perchè impervia.  

Quel tragitto prosegue  nel segno di  François Villon e, attraverso l’ascolto delle sue canzoni, di una vera e propria presa in carico dell’ Universo Brassens, in una sorta di educazione sentimentale distante appena un soffio da quella politica. Tutto ciò sospingendo De Andrè ad un approdo che ben definiva la sua visione del mondo : il pensiero anarchico di Bakunin, Stirner, e Malatesta.

Tutta la sua produzione viaggerà su questa direttrice. Dalla Città Vecchia a  Preghiera di gennaio fino ad Anime salve, De Andrè non abbandonerà mai la cattiva strada. Più che per un tratto di coerenza, per caparbietà nella convinzione che solo quella zona fosse davvero franca, inibita al Potere.

Diverse iniziative, nel decennale della sua scomparsa, sono già in cantiere, sollecitate da una memoria viva e  vitale che continua a produrre  un atipico fenomeno di diffusione della sua musica, anche tra i giovanissimi.

Tra queste – presentato in anteprima al Festival di Roma, il documentario di Teresa Marchesi  Effedià sulla sua cattiva strada.

Un lavoro di paziente (ed amorevole) collazione di stralci tratti da interviste, clip, concerti, in cui l’assenza di una voce narrante lascia molto spazio alla manifestazione in proprio della  personalità cordiale, aperta di un musicista colto, versatile e con un grande talento per la ricerca e la divulgazione.

Io credo che qui da noi Georges Brassens, pur affidato alle intelligenti cure di Nanni Svampa e Fausto Amodei che avevano preferito tradurre quel francese così denso nei rispettivi dialetti o di Beppe Chierici, raffinato interprete ma pochissimo noto, non sarebbe sopravvissuto nella memoria di ognuno, se Fabrizio de Andrè non se ne fosse appropriato, restituendoci condensata in sei brani, tutta l’essenza della sua vastissima produzione. Così come la curiosità per Mutis, Lee Masters, Pivano, Dylan, Coen, nasceva spontanea, essendo sufficiente una sola canzone o un accenno,  per innescarne il dispositivo.  Un tratto questo di generosità intellettuale come di chi  spalanca al prossimo il suo mondo e lo rende disponibile a nuove appropriazioni.

Tutto questo è contenuto nel DVD e in due libri fotografici (ma non solo), curati entrambi da Guido Harari, uno titolato Fabrizio de Andrè Una goccia di splendore, una biografia corredata da foto inedite e appunti  e un altro Evaporati in una nuvola rock in cui interviene anche Franz di Cioccio che è invece il diario collettivo del tour con La Premiata Forneria Marconi. Entrambi davvero belli corposi ed imperdibili.

E chissà che la Fondazione non voglia anche editare le riprese video del Tributo a Fabrizio De Andrè al Teatro Carlo Felice del 12 marzo 2000. Di quell’evento alcune interpretazioni sono presenti nel dvd : Zucchero,Vasco Rossi e Franco Battiato così commosso da non poter ultimare l’esecuzione di Amore che vieni  amore che vai.

Effedià sulla mia cattiva strada è un documentario di Teresa Marchesi prodotto dalla Fondazione de Andrè 2008

Fabrizio de Andrè, Una goccia di splendore è un libro curato da Guido Harari edito da Rizzoli 2008

Fabrizio de Andrè & PFM Evaporati in una nuvola rock è un libro curato da Franz Di Cioccio e Guido Harari edito da Chiare lettere.2008

Psiche sa leggere e scrivere

Psiche sa leggere e scrivere

Grand Rentrée di antichi tic Contiani, seppur declinati in chiave elettronica - i suoni di gomma e di plastica dei sintetizzatori, con la loro strana poesia –  Ma l’ abbandono momentaneo di swing e jazz, non scalfisce minimamente lo smalto delle esecuzioni. Psiche che  sa  leggere e scrivere – pallida lampada araba – è  il titolo del nuovo album, sintesi  del  carattere introspettivo ed insinuante  che attraversa l’intera collezione di brani. Niente di nuovo si dirà : c’è la bicicletta, Kipling, il circo, i pellerossa, la Francia, i rappel esotici, i viaggi,  il Novecento e la femminilità che continua ad essere misteriosa. E invece no e sono proprio le sonorità digitali a determinare l’efficacia  di certe soluzioni armoniche,  come – esito imprevedibile – l’esaltazione della voce dell’ oboe o di quella del sassofono baritono. Attualizzazione, magari anche un po’ ruffiana ? No, contaminazione piuttosto, ovvero risultanza  di una ricerca di cui, non tragga in  inganno pioggia pioggia pioggia pioggia…e Francia,  Conte s’incarica da sempre. Non a caso lo inondano di premi oramai in tutto il mondo. Piace moltissimo a me, inoltre, che ad Amore, per una volta, si preferisca Psiche e la si celebri. Che la presentazione dell’album sia avvenuta alla Salle Pleyel in Faubourg Saint’Honoré, tempio, di nome e di fatto, ( è un auditorium straordinario ) della musica colta. E non all’Olympia. Che di Berlino si colgano atmosfere mai più riproposte, da pre – caduta del muro. Che la conversazione d’amore di Coup de Thêatre, cantata in coppia con Emma Shapplin, sia quanto di più plateale e meno intimo possibile e che nel Quadrato e il Cerchio siano presenti, con qualche eco direttamente  da Aguaplano, i sensi della più stringente delle attualità. Psiche dilaga a diverso titolo, in questi quindici brani e si lascia decifrare, non senza le solite, familiari, inquietudini.

Mi piace stare sola

Mi piace stare sola

Nello spazio entro i confini stabiliti,  tra  Moro  perchè non  moro  a Morirò d’amore,  si articola  l’esperienza artistica di Giuni Russo. Concetto questo assai bene espresso nel docufilm Giuni Russo. La sua figura, da madre Emanuela della madre di Dio,carmelitana scalza e amica di Giuni. In meno di venti brani scelti dall’intero repertorio (inclusa Un’ estate al mare e Smoke in your your eyes , dunque rispettando anche il versante apparentemente più commerciale ) montati in ordine  acronologico (ma ciascuna interpretazione contiene in sè una piccola cronologia essendo a sua volta, un collage di immagini di diversi concerti), questa pregevole iniziativa curata da Franco Battiato, ci racconta Giuni studiosa, autrice, sperimentatrice, cantante in cima alla hit per una sola stagione, tuttavia mai sottomessa alle regole di mercato, quindi Libera da tutti i lacci che soffocano creatività e talento e impediscono di essere davvero padroni della propria arte . E sola .Come si conviene a chi nella severità esistenziale trova il suo modo, il suo stile.

Giuni Russo la sua figura è un docufilm di Franco Battiato prodotto da Radiofandango